Parafrasi - Opera Omnia >>  Ugo Foscolo : «Della Canzone di Legnano» Testo originale    

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IL  PARLAMENTO


I

L'imperatore Federico [Barbarossa] era giunto a Como, quando un messaggero entrò a Milano oltrepassando Porta Nova [la porta che da verso Monza e Lecco], conducendo il proprio cavallo al gran galoppo. Entrato in città, senza fermarsi, chiese alla popolazione di Milano di essere condotto dal console, Gherando. [Capagisto, giureconsulto e oratore, più volte console di Milano tra il 1150 e il 1179]. Il console era in mezzo alla piazza e il messaggero, restando piegato sulla sella senza scendere da cavallo, gli comunicò un breve messaggio e poi ripartì velocemente. Fece allora un cenno il console Gherardo e comandò di far suonare le trombe per chiamare il popolo a riunirsi in piazza.



II

Lo squillo di trombe convocò l'assemblea dei cittadini: il parlamento venne convocato all'aperto perché [dopo la demolizione di Milano ordinata dal Barbarossa quattordici anni prima (1162)] non erano stati ancora ricostruiti il palazzo del Comune, nè la sala delle pubbliche adunanze, nè la torre con la campana che serviva per chiamare i cittadini a raccolta. Il parlamento venne tenuto quindi nella piccola piazza della città in rovina, tra il nero dei ruderi e il verdeggiare dei rovi, tra povere case di legno, sotto il sole di Maggio. Anche donne e bambini, fermi sulle porte e affacciati alle finestre, parteciparono all'adunanza.



III

Il console si rivolse ai suoi concittadini e annunciò che, in questa primavera in fiore, erano giunti dalla Germania i rinforzi [dell'imperatore Federico Barbarossa], così come ci si aspettava. Truppe [pronte a scendere a Milano e] ingorde, come belve che passano l'inverno nelle proprie tane attendendo la buona stagione per scendere a valle e far bottino. Truppe di rinforzo condotte da due arcivescovi scomunicati [Filippo di Colonia e Wichmann di Magonza, che appoggiarono l'imperatore e l'antipapa Callisto III], attraverso la valle dell'Inn [l'Engadina] fino al lago di Como. Si ricongiunse inoltre a Federico Barbarossa anche la sua bionda [seconda] moglie [Beatrice di Borgogna], conducendo con sè un esercito composto di nuove leve. Infine il console annunciò che Como aveva abbandonato la Lega, passando dalla parte dell'esercito imperiale. E udendo questo, il popolo inneggiò quindi alla distruzione di Como.



IV

Rivolgendosi ancora ai suoi concittadini, il console rivelò che l'imperatore, radunate le truppe a Como, stava muovendo l'esercito, schierato per la battaglia, dirigendosi in direzione del marchesato di Monferrato e Pavia [il Monferrato e Pavia, oltre a Como, si erano schierati con Barbarossa]. Il console espose tre soluzioni: o aspettare proteggendo le nuove linee difensive della città, o inviare messaggeri per trattare con l'imperatore, o affrontarlo con le armi in campo aperto. Udendo questo, l'assemblea decise con risolutezza di optare per scontro frontale con il Barbarossa.



V

Fu in quel frangente che si fece avanti Alberto di Giussano [capitano della Compagnia della Morte, drappello di guerrieri che si oppose fortemente al Barbarossa]. Egli sovrastava con la sua statura, tutti quelli impiedi intorno al console. Egli si levava come una torre in mezzo all'assemblea: teneva in mano l'elmo: la bruna capigliatura copriva il largo collo e le ampie spalle. Il suo viso, solcato da espressioni che suggerivano franchezza e la nobiltà d'animo, era rischiarato dal sole che brillava sulle chiome e negli occhi. La sua voce era come un tuono di maggio [che preannuncia tempesta ma anche promette un rinverdire della terra].



VI

Rivolgendosi ai Milanesi con un trasporto d'amor fraterno, Alberto di Giussano ricordò loro i primi di Marzo [del 1162], quando Milano, dopo un lungo assedio, si arrese e i consoli della città, sguainate le spade, cavalcarono fino al suo palazzo di Lodi per giurare fedeltà all'imperatore. Seguirono, il quarto giorno, trecento cavalieri che con riverenza deposero gli stendardi ai piedi dell'imperatore, e mastro Guitelmo [ingegnoso architetto nel quale i cittadini riponevano le loro speranze] gli consegnò le chiavi dell'affamata Milano. E questo non gli bastò.



VII

Continuò Alberto di Giussano a rievocare il sei di Marzo, quando l'imperatore volle che dinnanzi a lui sfilassero tutti i soldati e tutto il popolo e tutte le insegne [per giurargli fedeltà]. Gli abitanti arrivavano dalle tre porte di Milano [porta Vercellina, porta Comasca e porta Nuova], il carroccio [un carro sul quale era posto un altare dove, durante la battaglia, un sacerdote celebrava la guerra] arrivava allestito per la guerra; andava ad addensarsi una grande moltitudine di popolo, tenendo in mano le croci. Davanti al Barbarossa le trombe del carroccio suonavano gli squilli della resa. Come segno di accettazione, egli toccò i lembi del gonfalone in segno di possesso.



VIII

Proseguì a parlare Alberto di Giussano e raccontò di quando, indossati i sacchi della penitenza, con i piedi scalzi, le corde al collo, il capo cosparso di cenere, nel fango, i milanesi si inginocchiarono e tendettero le braccia, invocando misericordia. Tutti attorno a lui piangevano, signori e cavalieri del suo seguito, impietositi da tanta miseria. Impassibile e inflessibile rimaneva solo l'imperatore, col suo sguardo freddo e duro come il diamante.



IX

E ancora: l'umiliazione venne ripetuta il giorno seguente. Alla vista dell'imperatrice che passava per strada, i milanesi gettarono attraverso i cancelli le croci, implorandola ad alta voce: "O bionda, o bella, o fedele, o pia, abbi pietà delle nostre donne: se non di noi, abbi pietà almeno di loro, che sono donne e madri come te". L'imperatrice non accolse le suppliche: e l'imperatore, allora, impose di abbattere la doppia cintura fortificata dei bastioni di Milano, in modo che egli potesse passare con il suo esercito schierato.



X

Alberto di Giussano andò avanti a ricordare i nove giorni di attesa, durante i quali lasciarono la città l'arcivescovo [Oberto da Pirovano], i conti e i vassalli minori [i valvassori]. Arrivò infine, al decimo giorno, l'ordine imperiale in cui si intimava ai milanesi di abbandonare la città entro otto giorni. Venendo a conoscenza di questo, tutti corsero urlando fino alla basilica di Sant'Ambrogio [patrono della città], abbracciandosi agli altari ed ai sepolcri [implorando pietà], venendo poi, come cani tignosi, cacciati via dalla chiesa, comprese donne e bambini [cacciati da gli ecclesiastici, che parteggiavano per l'imperatore].



XI

E concluse Alberto di Giussano rievocando la domenica degli ulivi [dei primi di Aprile del 1162], quando fu ultimata la demolizione delle mura, consumandosi così quella settimana di passione che unì il dolore della città al dolore di Cristo. Dai quattro Corpi santi [forse i sobborghi in cui erano stati raccolti in parte i profughi milanesi] furono visti cadere rovinosamente ad una ad una le trecento torri della cerchia di Milano; ed al termine della distruzione, attraverso la nube di polvere sollevata dai crolli, apparve uno scenario fatto di case spezzate, rovinate qua e là, sgretolate: come file di scheletri al cimitero. Sotto le macerie giacevano i corpi dei milanesi, corpi che attendono di essere vendicati.



XII

Detto questo, Alberto di Giussano si coprì gli occhi con tutte e due le mani e cominciò a piangere: e continuò a piangere nel mezzo dell'assemblea, singhiozzando e piangendo come un bambino. Dopo avere ascoltato in silenzio le drammatiche evocazioni di Alberto, il parlamento, cioè tutto il popolo milanese, ebbe un'esplosione di sdegno e d'ira, quasi un fremito di belve. Dalle porte e dai balconi le donne, pallide e spettinate, con le braccia tese e gli occhi sbarrati urlavano, invocando l'uccisione del Barbarossa.



XIII

"Or ecco" disse Alberto di Giussano "ecco io non piango più. È arrivato il giorno della riscossa, o milanesi, e bisogna vincere. Ecco io mi asciugo gli occhi e guardando il sole, metafora di Dio, faccio un giuramento: domani, verso sera i nostri morti riceveranno una dolce notizia in purgatorio. E sarò io stesso a portarla". Allorché, udendo questo, coloro che partecipavano al parlamento auspicarono che fossero gli stessi imperiali a portare il messaggio in Purgatorio [dopo essere morti in battaglia]. Il sole risplendeva nel cielo, tramontando dietro il Resegone.







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