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LIBRO PRIMO


I

ALLA RIMA

Ave, o rima! Con bell'arte
Su le carte
Te persegue il trovadore;
Ma tu brilli, tu scintilli,
Tu zampilli
Su del popolo dal cuore.

O scoccata tra due baci
Ne i rapaci
Volgimenti de la danza,
Come accordi ne' due giri
Due sospiri,
Di memoria e di speranza!

Come lieta risonasti
Su da i vasti
Petti al vespero sereno,
Quando il piè de' mietitori
In tre cori
Con tre note urtò il terreno!

Come orribile su vènti
De' vincenti
Tu ruggisti le virtudi,
Mentre l'aste sanguinose
Fragorose
Percoteano i ferrei scudi!

Sgretolar sott'esso il brando
Di Rolando
Tu sentisti Roncisvalle,
E soffiando nel gran corno
Notte e giorno
Del gran nome empi la valle.

Poi t'afferri a la criniera
Irta e nera
Di Babieca che galoppa,
E del Cid tra i gonfaloni
Balda intoni
La romanza in su la groppa.

Poi del Rodano a la bella
Onda snella
Dài la chioma polverosa,
E disfidi i rusignoli
Dolci e soli
Ne i verzieri di Tolosa.

Ecco, in poppa del battello
Di Rudello
Tu d'amor la vela hai messa,
Ed il bacio del morente
Rechi ardente
Su le labbra a la contessa.

Torna, torna: ad altri liti
Altri inviti
Ti fa Dante austero e pio;
Ei con te scende a l'inferno,
E l'eterno
Monte gira e vola a Dio.

Ave, o bella imperatrice,
O felice
Del latin metro reina!
Un ribelle ti saluta
Combattuta,
E a te libero s'inchina.

Cura e onor de' padri miei,
Tu mi sei
Come lor sacra e diletta.
Ave, o rima: e dammi un fiore
Per l'amore,
E per l'odio una saetta.


Bologna, 22 gennaio 1877.



LIBRO SECONDO


II

AL SONETTO

Breve e amplissimo carme, o lievemente
Co 'l pensier volto a mondi altri migliori
L'Alighier ti profili o te co' fiori
Colga il Petrarca lungo un rio corrente;

Te pur vestia de gli epici splendori
Prigion Torquato, e in aspre note e lente
Ti scolpìa quella man che sì potente
Pugnò co' marmi a trarne vita fuori:

l'Eschil poi, che su l'Avon rinacque,
Tu, peregrin con l'arte a strania arena,
Fosti d'arcan dolori arcan richiamo;

L'anglo e 'l lusiade Maro in te si piacque:
Ma Bavio che i gran versi urlando sfrena,
Bavio t'odia, o sonetto; ond'io più t'amo.


Bologna, 29 dicembre 1865.


III

IL SONETTO

Dante il mover gli diè del cherubino
E d'aere azzurro e d'òr lo circonfuse:
Petrarca il pianto del suo cor, divino
Rio che pe' versi mormora, gl'infuse.

La mantuana ambrosia e 'l venosino
Miel gl'impetrò da le tiburti muse
Torquato; e come strale adamantino
Contra i servi e' tiranni Alfier lo schiuse.

La nota Ugo gli diè de' rusignoli
Sotto i ionii cipressi, e de l'acanto
Cinsel fiorito a' suoi materni soli.

Sesto io no, ma postremo, estasi e pianto
E profumo, ira ed arte, a' miei dì soli
Memore innovo ed a i sepolcri canto.


[ 1870? ].


IV

OMERO

I

Non più riso d'iddei la nebulosa
Cima d'Olimpo a gli occhi umani accende:
Biancheggian teschi per le rupi orrende,
E sopravi la nera aquila posa.

Né più il sacro Scamandro al pian discende
Per le segnate vie: dov'ei riposa
Sotto il capo Sigeo l'onda obliosa,
Di otmane torri il tuo bel mar s'offende.

Pur la novella etade, o veglio acheo,
Il cenno ancor de l'immortal Cronide
Stupisce e i passi de l'Enosigeo;

E trema, o vate, allor che d'omicide
Furie raggiante lungo il nero Egeo
Salta su 'l carro il tuo divin Pelide.


Bologna, 21 giugno 1862.


V

OMERO

II

E forse da i selvaggi Urali a valle
Nova ruinerà barbara plebe,
Nova d'armi e di carri e di cavalle
Coprirà un'onda l'agenòrea Tebe,

E cadrà Roma, e per deserto calle
Bagnerà il Tebro innominate glebe.
Ma tu, o poeta, sì com'Ercol dalle
Pire d'Eta fumanti al seno d'Ebe,

Risorgerai con giovanili tempre
Pur a l'amplesso de l'eterna idea
Che disvelata rise a te primiero.

E, s'Alpe ed Ato pria non si distempre,
A la riva latina ed a l'achea
Perenne splenderà co 'l sole Omero.


Bologna, giugno 1861.


VI

OMERO

III

E sempre a te co 'l sole e la feconda
Primavera io ritorno ed a' tuoi canti,
Veglio divin le cui tempia stellanti
Lume d'eterna gioventù circonda.

Dimmi le grotte di Calipso bionda,
De la figlia del Sol dimmi gl'incanti,
Nausicaa dimmi e del re padre i manti
Lietamente lavati a la bell'onda.

Dimmi... Ah non dir. Di giudici cumei
Fatta è la terra un tribunale immondo,
E vili i regi e brutti son gli dèi:

E se tu ritornassi al nostro mondo,
Novo Glauco per te non troverei:
Niun ti darebbe un soldo, o vagabondo.


[ 1862 ].


VII

DI NOTTE

Pur ne l'ombra de' tuoi lati velami
Gli umani tedi, o notte, ed i miei bassi
Crucci ravvolgi e sperdi: a te mi chiami,
E con te sola il mio cuor solo stassi.

Di quai d'ozio promesse adempi e sbrami
Gl'irrequieti miei spiriti lassi?
E qual doni potenza a i pensier grami
Onde a l'eterno o al nulla errando vassi?

O diva notte, io non so già che sia
Questo pensoso e presago diletto
Ove l'ire e i dolor l'anima oblia:

Ma posa io trovo in te, qual pargoletto
Che singhiozza e s'addorme de la pia
Ava abbrunata su l'antico petto.


Agosto 1851 [ 1874 ].


VIII

COLLOQUI CON GLI ALBERI

Te che solinghe balze e mesti piani
Ombri, o quercia pensosa, io più non amo,
Poi che cedesti al capo de gl'insani
Eversor di cittadi il mite ramo.

Né te, lauro infecondo, ammiro o bramo,
Che mènti e insulti, o che i tuoi verdi e strani
Orgogli accampi in mezzo al verno gramo
O in fronte a calvi imperador romani.

Amo te, vite, che tra bruni sassi
Pampinea ridi, ed a me pia maturi
Il sapiente de la vita oblio.

Ma più onoro l'abete: ei fra quattr'assi,
Nitida bara, chiuda al fin li oscuri
Del mio pensier tumulti e il van desio.


13 febbraio 1873.


IX

IL BOVE

T'amo, o pio bove; e mite un sentimento
Di vigore e di pace al cor m'infondi,
O che solenne come un monumento
Tu guardi i campi liberi e fecondi,

O che al giogo inchinandoti contento
L'agil opra de l'uom grave secondi:
Ei t'esorta e ti punge, e tu co 'l lento
Giro de' pazienti occhi rispondi.

Da la larga narice umida e nera
Fuma il tuo spirto, e come un inno lieto
Il mugghio nel sereno aer si perde;

E del grave occhio glauco entro l'austera
Dolcezza si rispecchia ampio e quieto
Il divino del pian silenzio verde.


23 novembre 1872.


X

VIRGILIO

Come, quando su' campi arsi la pia
Luna imminente il gelo estivo infonde,
Mormora al bianco lume il rio tra via
Riscintillando tra le brevi sponde;

E il secreto usignuolo entro le fronde
Empie il vasto seren di melodia,
Ascolta il viatore ed a le bionde
Chiome che amò ripensa, e il tempo oblia;

Ed orba madre, che doleasi in vano,
Da un avel gli occhi al ciel lucente gira
E in quel diffuso albor l'animo queta;

Ridono in tanto i monti e il mar lontano,
Tra i grandi arbor la fresca aura sospira:
Tale il tuo verso a me, divin poeta.


Bologna, 11 giugno 1862.


XI

FUNERE MERSIT ACERBO

O tu che dormi là su la fiorita
Collina tósca, e ti sta il padre a canto;
Non hai tra l'erbe del sepolcro udita
Pur ora una gentil voce di pianto?

È il fanciulletto mio, che a la romita
Tua porta batte: ei che nel grande e santo
Nome te rinnovava, anch'ei la vita
Fugge, o fratel, che a te fu amara tanto.

Ahi no! giocava per le pinte aiole,
E arriso pur di vision leggiadre
L'ombra l'avvolse, ed a le fredde e sole

Vostre rive lo spinse. Oh, giù ne l'adre
Sedi accoglilo tu, ché al dolce sole
Ei volge il capo ed a chiamar la madre.


9 novembre 1870.


XII

NOTTE D'INVERNO

Innanzi, innanzi. Per le foscheggianti
Coste la neve ugual luce e si stende,
E cede e stride sotto il piè: d'avanti
Vapora il sospir mio che l'aer fende.

Ogni altro tace. Corre tra le stanti
Nubi la luna su 'l gran bianco e orrende
L'ombre disegna di quel pin che tende
Cruccioso al suolo informe i rami infranti,

Come pensier di morte desiosi.
Cingimi, o bruma, e gela de l'interno
Senso i frangenti che tempestan forti;

Ed emerge il pensier su quei marosi
Naufrago, ed al ciel grida: O notte, o inverno,
Che fanno giù ne le lor tombe i morti?


24 dicembre 1870.


XIII

FIESOLE

Su l'arce onde mirò Fiesole al basso,
Dov'or s'infiora la città di Silla,
Stagnar livido l'Arno, a lento passo
Richiama i francescani un suon di squilla.

Su le mura, dal rotto etrusco sasso
La lucertola figge la pupilla,
E un bosco di cipressi a i venti lasso
Ulula, e il vespro solitario brilla.

Ma dal clivo lunato a la pianura
Il campanil domina allegro, come
La risorta nel mille itala gente.

O Mino, e nel tuo marmo è la natura
Che de' fanciulli a le ricciute chiome
Ride, vergine e madre eternamente.


Bologna, 29 aprile 1886.


XIV

SAN GIORGIO DI DONATELLO

Siede novembre su le vie festanti
Ove il maggio s'aprì de' miei pensieri,
E spettral ne la nebbia alza i giganti
Templi la tua città, Dante Alighieri.

Meglio così; ch'io non mi vegga avanti
Gli academici Lapi e i Bindi artieri:
Io vo' vedere il cavalier de' santi,
Il santo io vo' veder de' cavalieri.

Forza di gioventù lieta da' marmi
Fiorente, ch'ogni loda a dietro lassi
D'achei scalpelli e di toscani carmi,

Degno, San Giorgio (oh con quest'occhi lassi
Il vedess'io), che innanzi a te ne l'armi
Un popolo d'eroi vincente passi.


30 aprile 1886.


XV

S.MARIA DEGLI ANGELI

Frate Francesco, quanto d'aere abbraccia
Questa cupola bella del Vignola,
Dove incrociando a l'agonia le braccia
Nudo giacesti su la terra sola!

E luglio ferve e il canto d'amor vola
Nel pian laborioso. Oh che una traccia
Diami il canto umbro de la tua parola,
L'umbro cielo mi dia de la tua faccia!

Su l'orizzonte del montan paese,
Nel mite solitario alto splendore,
Qual del tuo paradiso in su le porte,

Ti vegga io dritto con le braccia tese
Cantando a Dio – Laudato sia, signore,
Per nostra corporal sorella morte!


27-29 maggio 1886.


XVI

DANTE

Dante, onde avvien che i vóti e la favella
Levo adorando al tuo fier simulacro,
E me su 'l verso che ti fe' già macro
Lascia il sol, trova ancor l'alba novella?

Per me Lucia non prega e non la bella
Matelda appresta il salutar lavacro,
E Beatrice con l'amante sacro
in vano sale a Dio di stella in stella.

Odio il tuo santo impero; e la corona
Divelto con la spada avrei di testa
Al tuo buon Federico in val d'Olona.

Son chiesa e impero una ruina mesta
Cui sorvola il tuo canto e al ciel risona:
Muor Giove, e l'inno del poeta resta.


[ 1867 ? ].


XVII

GIUSTIZIA DI POETA

Dante, il vicin mio grande, allor che errava
Pensoso peregrin la selva fiera,
Se in traditor se in ladri o in quale altra era
Gente di voglia niquitosa e prava

Dolce ei d'amor cantando s'incontrava,
L'acceso stral de la pupilla nera
Tra fibra e fibra a i miseri ficcava;
Poi con la man, con quella man leggera

Che ne la vita nova angeli pinse,
Sì gli abbrancava e gli bollava in viso
E gli gettava ne la morta gora.

L'onta de' rei che secol non estinse
Fuma pe' cerchi de l'inferno ancora;
E Dante guarda, su dal paradiso.


Marzo 1871.


XVIII

COMMENTANDO IL PETRARCA

Messer Francesco, a voi per pace io vegno
E a la vostra gentile amica bionda:
Terger vo' l'alma irosa e 'l torvo ingegno
A la dolce di Sorga e lucid'onda.

Ecco: un elce mi porge ombra e sostegno,
E seggo, e chiamo, a la romita sponda;
E voi venite, e un salutevol segno
Mi fa il coro gentil che vi circonda.

De le canzoni vostre è il dolce coro,
Cui da un cerchio di rose a pena doma
Va pe' bei fianchi la cesarie d'oro

In riposo ondeggiante. Ahi, che la chioma
Scuote e 'l musico labbro una di loro
Apre al grido ribelle: Italia e Roma.


Aprile 1868.


XIX

HO IL CONSIGLIO A DISPETTO

– Vaghe le nostre donne e i giovinetti
Son fieri e adorni: or via, diffondi, o vate,
Sovr'essi il coro de le strofe alate,
E spargi anche tu fiori e intreccia affetti.

Perché roggio è 'l tuo verso, e tu ne' petti
Semini spine? Oblia. T'apran le fate
Il giardin de l'incanto, e la beltate
I suoi sorrisi. Il mondo anche ha diletti. –

Or dite a Giovenal che si dibatte
Sotto la dea, ch'egli lo spasmo in riso
Muti e in gliconio l'esametro ansante;

E, quando avventa i suoi folgori Dante
Su da l'inferno e giù dal paradiso,
Addolciteli voi nel caff'e latte.


1870.


XX

DIETRO UN RITRATTO DELL'ARIOSTO

Questa che a voi, donna gentil, ne viene
Imagin viva del divin lombardo
Ne l'ampia fronte e nel fiso occhio e tardo
Lo stupor de' gran sogni anche ritiene.

Oh lui felice! il qual, poich'ebbe piene
Tutte del mondo suo lieto e gagliardo
Le carte, aprir più non sostenne il guardo
Sotto povero ciel, su meste arene.

E più felice ancor! ché non favore
Di prence e di vulgo aura ogn'or novella
Né di teologal donna l'amore,

Ma premio a' canti era una bocca bella,
Che del fronte febeo lenìa l'ardore
Co' baci, e quel fulgea come una stella.


14 aprile 1874.


XXI

SOLE E AMORE

Lievi e bianche a la plaga occidentale
Van le nubi: a le vie ride e su 'l fòro
Umido il cielo, ed a l'uman lavoro
Saluta il sol, benigno, trionfale.

Leva in roseo fulgor la cattedrale
Le mille guglie bianche e i santi d'oro,
Osannando irraggiata: intorno il coro
Bruno de' falchi agita i gridi e l'ale.

Tal, poi ch'amor co 'l dolce riso via
Rase le nubi che gravârmi tanto,
Si rileva nel sol l'anima mia,

E molteplice a lei sorride il santo
Ideal de la vita: è un'armonia
Ogni pensiero, ed ogni senso un canto.


[ 14-15 dicembre 1872 ].


XXII

MATTUTINO E NOTTURNO

Al mattin da la pioggia ecco deterso
In purità d'azzurro il ciel risplende,
E dal sole di maggio a l'universo
Il sorriso di Dio benigno scende;

Quando alacre da l'animo sommerso
L'ali innovate il mio pensiero stende,
E al sol de gli occhi tuoi rivola il verso
Come trillo di lodola che ascende.

Ma sento ardermi in cor la luce bruna
De le pupille in cui erra dolente
Il desio d'un ignoto estraneo lito,

Quando ammiro da i poggi ermi la luna
A la città marmorea tacente
Dir le malinconie de l'infinito.


Verona, 17 luglio 1883.


XXIII

QUI REGNA AMORE

Ove sei? de' sereni occhi ridenti
A chi tempri il bel raggio, o donna mia?
E l'intima del cor tuo melodia
A chi armonizzi ne' soavi accenti?

Siedi tra l'erbe e i fiori e a' freschi venti
Dài la dolce e pensosa alma in balìa?
O le membra concesso hai de la pia
Onda a gli amplessi di vigor frementi?

Oh, dovunque tu sei, voluttuosa
Se l'aura o l'onda con mormorio lento
Ti sfiora il viso o a' bianchi omeri posa,

È l'amor mio che in ogni sentimento
Vive e ti cerca in ogni bella cosa
E ti cinge d'eterno abbracciamento.


Bologna, agosto 1872.


XXIV

VISIONE

Or ch'a i silenzi di cerulea sera
Tra fresco mormorio d'alberi e fiori
Ella siede, e in soavi aure ed odori
Freme la voluttà di primavera,

Tu di vetta a l'antica alpe severa
Tra i verdi a l'albor tuo tremuli orrori
La cerchi, o luna, e quella dolce e altera
Fronte del tuo più vivo raggio irrori.

Tal forse, o greca dea, la pura fronte
Chinavi, in cuor d'Endimion pensosa,
Su 'l tuo grande sereno arco d'argento;

E i fiumi al bianco piè pe 'l latmio monte,
Raggiati da la faccia luminosa,
Scendean d'amore a ragionar co 'l vento.


17-18 settembre 1872.


XXV

MITO E VERITÀ

Narran le istorie e cantano i poeti,
Cui diva nunzia Clio meglio ammaestra,
Mirabil cosa che d'Artù la destra
Oprò ne i campi di Bretagna lieti.

Spinse ei l'antenna del ferir maestra,
E sì ruppe a Mordrèc le due pareti
Del cuor, che i rai del sole irrequieti
Risero per l'orribile finestra.

Meraviglia più nova in me si vede:
Ché, strappando io la imagin bella e fiera
Dal mio cuore a cui viva ella si abbranca,

Il cuor mi strappo, e movo alacre il piede;
E per la piaga fumigante e nera
Ride il dispetto de l'anima franca.


Bologna, 24 novembre 1872.


XXVI

IN RIVA AL MARE

Tirreno, anche il mio petto è un mar profondo,
E di tempeste, o grande, a te non cede:
L'anima mia rugge ne' flutti, e a tondo
Suoi brevi lidi e il picciol cielo fiede.

Tra le sucide schiume anche dal fondo
Stride la rena: e qua e là si vede
Qualche cetaceo stupido ed immondo
Boccheggiar ritto dietro immonde prede.

La ragion da le sue vedette algenti
Contempla e addita e conta ad una ad una
Onde e belve ed arene in van furenti:

Come su questa solitaria duna
L'ire tue negre a gli autunnali venti
Inutil lampa illumina la luna.


[ 1874-75 ].


XXVII

A UN ASINO

Oltre la siepe, o antico paziente,
De l'odoroso biancospin fiorita,
Che guardi tra i sambuchi a l'oriente
Con l'accesa pupilla inumidita?

Che ragli al cielo dolorosamente?
Non dunque è amor che te, o gagliardo, invita?
Qual memoria flagella o qual fuggente
Speme risprona la tua stanca vita?

Pensi l'ardente Arabia e i padiglioni
Di Giob, ove crescesti emulo audace
E di corso e d'ardir con gli stalloni?

O scampar vuoi ne l'Ellade pugnace
Chiamando Omero che ti paragoni
Al telamonio resistente Aiace?


28-29 settembre 1884.


XXVIII

AD UNA BAMBINA

Su la parvola tua fiera persona
Il mio pensier rammemorando posa,
Ed una vision si disprigiona
Che mi dormì nel cuor gran tempo ascosa.

Quella in fulvi riflessi radiosa
Chioma che l'agil capo t'incorona
Parmi la selva di castagni ombrosa
Che là su l'apuane alpi tenzona

Co' venti de l'aprile. Ivi ne l'armi
Vissero i forti padri, ivi la mia
Anima il mondo cominciò a sognare,

Mentre a le rupi ardue di bianchi marmi
Cerulo come l'occhio tuo ferìa
Il sorridente al sol ligure mare.


Verona, 4 febbraio 1883.


XXIX

A MADAMIGELLA MARIA L.

O ne' giorni tuoi mesti e lagrimanti
Volata fuor de la veduta mia,
Quale risaliente angelo in pianti,
Dolce lume di ciel, bionda Maria;

Dal bel paese ov'ebbe Laura i canti
Del mio poeta e la memoria pia
Or peregrina imagine d'avanti
Mi rifiorisci ne la fantasia:

Come nel serenato umido cielo
Giglio da l'improvviso verno affranto
Si rileva ondeggiando in su lo stelo,

E gli aurei stami ed il profumo e il vanto
Apre di sua beltà dal bianco velo
A' rai del sole e de gli augelli al canto.


31 maggio 1885.


XXX

MOMENTO EPICO

Addio, grassa Bologna! e voi di nera
Canape nel gran piano ondeggiamenti,
E voi pallidi in lunghe file a' venti
Pioppi animati da l'estiva sera!

Ecco Ferrara l'epica. Leggera
La mole estense i merli alza ridenti,
E specchiando le nubi auree fuggenti
Canta del Po l'ondisona riviera.

O terre intorno a gli alti argini sole,
Ove pianser l'Eliadi; a voi discende
La tenebra odiata, e a me non duole.

A me ne l'ombre l'epopea distende
Le sue rosse ali, e su 'l mio cuore il sole
De le immortali fantasie raccende.


23-26 luglio 1878.


XXXI

MARTINO LUTERO

Due nemici ebbe, e l'uno e l'altro vinse,
Trent'anni battaglier, Martin Lutero;
L'uno il diavolo triste, e quello estinse
Tra le gioie del nappo e del saltero;

L'altro l'allegro papa, e contro spinse
A lui Cristo Gesù duro ed austero;
E di fortezza i lombi suoi precinse,
E di serenità l'alto pensiero.

– Nostra fortezza e spada nostra Iddio –
A lui d'intorno il popol suo cantava
Con l'inno ch'ei gli diè pien d'avvenire.

Pur, guardandosi a dietro, ei sospirava:
Signor, chiamami a te: stanco son io:
Pregar non posso senza maledire.


18 febbraio 1886.


XXXII

LA STAMPA E LA RIFORMA

Credo – diceasi; e, come fiere in lustre,
Sonnecchiando giacean nel chiostro nero
Codici immani, e il tardo augel palustre
Porgea la penna al fulmine del vero.

Penso – si disse; e dritta in piè l'industre
Arte diè di metallo ali al pensiero,
Ed ad ogni scoter d'ala uscia d'illustre
Guerra dal torchio il libro messaggero.

Ed esce e vola, e al monte e al pian ragiona
Il picciol libro; e in fier sassone metro
E latin l'alta sfida a Roma intona.

Vola; e per l'aere ancor da' roghi tetro
Al Zuiderzée che lieto i lidi introna
Gitta di Carlo quinto e spada e scetro.


Settembre 1869.


XXXIII

ORA E SEMPRE

Ora –: e la mano il giovine nizzardo
Biondo con sfavillanti occhi porgea,
E come su la preda un leopardo
Il suo pensiero a l'avvenir correa.

E sempre –: con la man fiso lo sguardo
L'austero genovese a lui rendea:
E su 'l tumulto eroico il gagliardo
Lume discese de l'eterna idea.

Ne l'aer d'alte vision sereno
Suona il verbo di fede, e si diffonde
Oltre i regni di morte e di fortuna.

Ora – dimanda per lo ciel Staglieno,
Sempre – Caprera in mezzo al mar risponde:
Grande su 'l Pantheon vigila la luna.


18-23 febbraio 1886.


XXXIV

TRAVERSANDO LA MAREMMA TOSCANA

Dolce paese, onde portai conforme
L'abito fiero e lo sdegnoso canto
E il petto ov'odio e amor mai non s'addorme,
Pur ti riveggo, e il cuor mi balza in tanto.

Ben riconosco in te le usate forme
Con gli occhi incerti tra 'l sorriso e il pianto,
E in quelle seguo de' miei sogni l'orme
Erranti dietro il giovenile incanto.

Oh, quel che amai, quel che sognai, fu in vano;
E sempre corsi, e mai non giunsi il fine;
E dimani cadrò. Ma di lontano

Pace dicono al cuor le tue colline
Con le nebbie sfumanti e il verde piano
Ridente ne le pioggie mattutine.


21 aprile 1885.


XXXV

DIETRO UN RITRATTO

Tal fui qual fremo in questa imagin viva,
Quand'era tutto sole il mio pensiero
E a prova tra le sirti aspre del vero
Ribalzava il mio verso e ribolliva.

Or m'avvolge la calma: un velo nero
Copre la terra che lontan fioriva,
Strillano augei palustri in su la riva:
E io poco più amo e nulla spero.

Oh fantasie di gloria a terra sparte!
E tu Italia vincente e tu rubesta
Libertà coronata alto da l'arte!

Sopra il fango che sale or non mi resta
Che gittare il mio sdegno in vane carte
E dal palco mortale un dì la testa.


2 dicembre 1881.



LIBRO TERZO


XXXVI

MATTINO ALPESTRE

Da l'oriente palpita
Il giorno, e i primi raggi
Scendon soavi a frangersi
Tra 'l nereggiar de' faggi.

Guizzan su 'l fiume e ridono
Tra i mormorii de l'onde,
Come occhi d'una vergine
Che a nuovo amor risponde.

Scorron su 'l monte; e s'anima
D'un riso anch'ei, ma tardo,
Come al giocar de i pargoli
La faccia d'un vegliardo.

Già son fulgore, e spandesi
Per la vallèa fiorita,
Come speranza giovine
In su l'aperta vita.

Ondeggia dal pian rorido
E si raccoglie e stende
Un velo di caligine
Che al sole argentea splende.

Floridi i colli emergono;
Ma le case e le piante
Come sogni traspaiono
Entro il vel biancheggiante.

Da i fumeggianti culmini
Tra i giuochi de la luce
Desio ne l'alto a querule
Coppie i palombi adduce.

Le terse ali riflettono
Il limpido splendore,
Passano lampi ed iridi.
Il ciel sorride amore.


15-18 febbraio 1886 [ 1852 ].


XXXVII

ROSA E FANCIULLA

Or che soave è il cielo e i dì son belli
E gemon l'aure e cantano gli augelli
Tu chini l'amorosa
Fronte, o vergine rosa.

Per te non fa che il prato ove nascesti
Tiranno solitario avvampi il sole,
Quando su' campi da la falce mesti
La polverosa estate a lui si duole,
E nel meriggio le campagne sole
Assorda la cicala,
E impreca al giorno, che affannoso cala,
Dal risécco pantan la rana ascosa.

Subito allor su' non più verdi colli
Sorge il turbine, e gran strepito mena,
Spazza gli ultimi fiori ed i rampolli.
E allaga i campi d'infelice arena;
E più cresce l'arsura, e de l'amena
Ombra il conforto manca.
Tu fuggi a quella stanca
Ora, o vergine rosa.

Per te non fa ne' giorni grigi e scarsi
Mirar la doglia de l'anno che muore,
Le foglie ad una ad una distaccarsi
E gemer sotto il piè del viatore,
Sin che la nebbia del suo putre umore
Le macera o le avvolge
La fredda brezza e lenta le travolge
Giù ne l'informe valle ruinosa.

Allor le nubi che fuman su i monti,
Allor le pioggie lunghe e tristi al piano,
E l'alte ombre de' gelidi tramonti,
Ed il triste desio del sol lontano,
E la bruma crescente a mano a mano,
E il gel che tutto serra.
Tu fuggi a tanta guerra,
O giovinetta rosa.


Firenze, settembre 1864.


XXXVIII

BRINDISI D'APRILE

Quando su l'elci nere
E i mandorli novelli
Tripudia de gli augelli
Il coro nuzial,

E son le primavere
Per le colline apriche
Occhi di ninfe antiche
Che guardano il mortal,

E il sol d'un giovenil
Riso i verzier saluta
E pio sovra la muta
Landa s'inchina il ciel,

E il fiato de l'aprile
Move le biade in fiore
Come un sospir d'amore
Di nuova sposa il vel:

Sobbalza allor di palpiti,
Sente le sue ferite,
Il tronco de la vite,
De la fanciulla il cor;

Quella spira odorifere
Gemme a la fredda scheggia,
Questa desio lampeggia
Nel vergine rossor.

Allora a l'aer tepido
Tutto fermenta e langue,
Entro le vene il sangue,
Entro le botti il vin.

Tu senti de la patria,
Rosso prigion, desio;
E l'aura del natio
Colle sommove il tin.

Di pampini giuliva
La dolce vite è là,
Tu qui ne' lacci... Oh viva,
Viva la libertà!

Andiamo, il prigioniere
Andiamo a liberar;
Facciamlo nel bicchiere
Rivivere e brillar,

Brillare al colle in vetta,
Brillare in faccia al sol:
Ribaci lui l'auretta,
Riveda egli il magliol.

E tu arridigli, o sole. Ei di te nacque
Ne' dì che ad Opi t'infondevi in seno:
De i doni suoi la vita egra compiacque,
Come te ardente, come te sereno:

Quando tu disparisti, ed ei soggiacque
Prigion celeste in carcere terreno:
Bagna i tuoi raggi nel gentil vermiglio,
Bacia, sole immortal, bacia il tuo figlio.

Vermiglio questo; ma quell'altro è biondo
Come la chioma tua, lene Agieo,
Come le ninfe che inseguivi al mondo
Su le rive felici di Peneo,
Allor che il ionio spirito giocondo
D'ogni splendida cosa iddio ti feo:
Ora le forme belle han tolto esiglio;
Bacia, sole immortal, bacia il tuo figlio.

Unico ei resta, o sole; ed io d'amore
Unico l'amo, o biondo siasi o nero.
Biondo, è la luce che da i nervi fuore
Sprizza del canto il creator pensiero;
Nero, è il buon sangue che di fondo al cuore
Ne i magnanimi fatti ondeggia altero:
Versa al biondo i tuoi raggi ed al vermiglio,
Bacia, sole immortal, bacia il tuo figlio.


Aprile 1869.


XXXIX

PRIMAVERA CLASSICA

Da i verdi umidi margini
La violetta odora,
Il mandorlo s'infiora,
Trillan gli augelli a vol.

Fresco ed azzurro l'aere
Sorride in tutti i seni:
Io chiedo a' tuoi sereni
Occhi un più caro sol.

Che importa a me de gli aliti
Di mammola non tócca?
Ne la tua dolce bocca
Freme un più vivo fior.

Che importa a me del garrulo
Di fronde e augei concento?
Oh che divino accento
Ha su' tuoi labbri amor!

Auliscan pur le rosee
Chiome de gli arboscelli:
L'onda de' tuoi capelli,
Cara, disciogli tu.

M'asconda ella gl'inanimi
Fiori del giovin anno:
Essi ritorneranno.
Tu non ritorni più.


Marzo (fine) 1873.


XL

AUTUNNO ROMANTICO

Di sereno adamàntino su 'l vasto
Squallor d'autunno il cielo azzurro brilla,
Come di sua beltà nel conscio fasto
La tua fredda pupilla.

Come a te velo tenue le membra
Nel risorger del tuo bel giorno a l'opre,
Nebbia la terra, che addormita sembra,
Argentea ricopre.

Ed immoti per essa ergon le cime
Irte ed umide i grigi alberi muti,
Quai nel pensier cui la memoria opprime
I dolci anni perduti.

E via sovr'essi indifferente il sole,
Che al bel maggio rideva entro la folta
Fronda, ora fulge e non riscalda. O Jole,
Amiam l'ultima volta.


8 gennaio 1872.


XLI

IN MAGGIO
DA H. HEINE'S Letzte Gedichte

Gli amici a cui dissi d'amor parole
Peggio m'han fatto ed ho spezzato il cuor:
Spezzato ho il cuor, ma là su alto il sole
Ride e saluta al mese de l'amor.

Primavera fiorisce: allegri cori
D'augelli empiono il bosco giovenil:
Virginee ridon le fanciulle e i fiori:
Oh come orribil sei, mondo gentil!

L'Orco vogl'io: miglior le piaggie bige
Danno asilo a i dolenti: ivi non più
Contrasto e scherno. Oh, meglio de la Stige
Errar su le notturne acque là giù.

Il triste mormorio de l'onde lente,
De le figlie di Stinfalo il gracchiar,
La canzon de l'Eumenidi stridente,
Il continuo di Cerbero latrar,

Son fiera cosa che al dolor s'accorda:
Di dolore ogni cosa ha vista e suon
Ove impera su l'ombre Ecate sorda
Ed eterno del pianto ulula il tuon.

Ma qua su come e di che duro oltraggio
E sole e rose a me fiedono il cuor!
M'insulta il ciel, l'azzurro ciel di maggio...
O mondo bello, tu sei pien d'orror!


12-13 marzo 1871.


XLII

PIANTO ANTICO

L'albero a cui tendevi
La pargoletta mano,
Il verde melograno
Da' bei vermigli fior,

Nel muto orto solingo
Rinverdì tutto or ora
E giugno lo ristora
Di luce e di calor.

Tu fior de la mia pianta
Percossa e inaridita,
Tu de l'inutil vita
Estremo unico fior,

Sei ne la terra fredda,
Sei ne la terra negra;
Né il sol più ti rallegra
Né ti risveglia amor.


Giugno 1871.


XLIII

NOSTALGIA

Tra le nubi ecco il turchino
Cupo ed umido prevale:
Sale verso l'Apennino
Brontolando il temporale.
Oh se il turbine cortese
Sovra l'ala aquilonar
Mi volesse al bel paese
Di Toscana trasportar!

Non d'amici o di parenti
Là m'invita il cuore e il volto:
Chi m'arrise a i dì ridenti
Ora è savio od è sepolto.
Né di viti né d'ulivi
Bel desio mi chiama là:
Fuggirei da' lieti clivi
Benedetti d'ubertà.

De le mie cittadi i vanti
E le solite canzoni
Fuggirei: vecchie ciancianti
A marmorei balconi!

Dove raro ombreggia il bosco
Le maligne crete, e al pian
Di rei sugheri irto e fósco
I cavalli errando van,

Là in maremma ove fiorìo
La mia triste primavera,
Là rivola il pensier mio
Con i tuoni e la bufera:
Là nel ciel nero librarmi
La mia patria a riguardar,
Poi co 'l tuon vo' sprofondarmi
Tra quei colli ed in quel mar.


8-9 settembre 1874 [ 1871 ].


XLIV

TEDIO INVERNALE

Ma ci fu dunque un giorno
Su questa terra il sole?
Ci fur rose e viole,
Luce, sorriso, ardor?

Ma ci fu dunque un giorno
La dolce giovinezza,
La gloria e la bellezza,
Fede, virtude, amor?

Ciò forse avvenne a i tempi
D'Omero e di Valmichi:
Ma quei son tempi antichi,
Il sole or non è più.

E questa ov'io m'avvolgo
Nebbia di verno immondo
È il cenere d'un mondo
Che forse un giorno fu.


20 marzo 1875.


XLV

VIGNETTA

La stagion lieta e l'abito gentile
Ancor sorride a la memoria in cima
E il verde colle ov'io la vidi prima.

Brillava a l'aree e a l'acque il novo aprile,
Piegavan sotto il fiato di ponente
Le fronde a tremolar soavemente.

Ed ella per la tenera foresta
Bionda cantava al sole in bianca vesta.


Verona, 13 luglio 1884.


XLVI

LUNGI LUNGI
DA H. HEINE'S Lyrisches Intermezzo

Lungi, lungi, su l'ali del canto
Di qui lungi recare io ti vo':
Là, ne i campi fioriti del santo
Gange, un luogo bellissimo io so.

Ivi rosso un giardino risplende
De la luna nel cheto chiaror:
Ivi il fiore del loto ti attende,
O soave sorella de i fior.

Le viole bisbiglian vezzose,
Guardan gli astri su alto passar;
E tra loro si chinan le rose
Odorose novelle a contar.

Salta e vien la gazella, l'umano
Occhio volge, si ferma a sentir:
Cupa s'ode lontano lontano
L'onda sacra del Gange fluir.

Oh che sensi d'amore e di calma
Beveremo ne l'aure colà!
Sogneremo, seduti a una palma,
Lunghi sogni di felicità.


[ 1871 ].


XLVII

PANTEISMO

Io non lo dissi a voi, vigili stelle,
A te no 'l dissi, onniveggente sol:
Il nome suo, fior de le cose belle,
Nel mio tacito petto echeggiò sol.

Pur l'una de le stelle a l'altra conta
Il mio secreto ne la notte bruna,
E ne sorride il sol, quando tramonta,
Ne' suoi colloqui con la bianca luna.

Su i colli ombrosi e ne la piaggia lieta
Ogni arbusto ne parla ad ogni fior:
Cantan gli augelli a vol – Fósco poeta,
Ti apprese al fine i dolci sogni amor. –

Io mai no 'l dissi: e con divin fragore
La terra e il ciel l'amato nome chiama,
E tra gli effluvi de le acacie in fiore
Mi mormora il gran tutto – Ella, ella t'ama.


15 giugno 1872.


XLVIII

PASSA LA NAVE MIA
DA H. HEINE'S Verschiedene

Passa la nave mia con vele nere,
Con vele nere pe 'l selvaggio mare.
Ho in petto una ferita di dolore,
Tu ti diverti a farla sanguinare.
È, come il vento, perfido il tuo core,
E sempre qua e là presto a voltare.
Passa la nave mia con vele nere,
Con vele nere pe 'l selvaggio mare.


20 agosto 1882.


XLIX

ANACREONTICA ROMANTICA

Nel bel mese di maggio
Io sotterrai l'Amor
De' nuovi soli al raggio
Sotto un'acacia in fior.

Le requie lamentose
Disser gli augelli in ciel,
E fu tra gigli e rose
Del picciol dio l'avel.

Fu tra le rose e i gigli
D'un molto amato sen:
I prati eran vermigli,
Rideva il ciel seren.

Una memoria mesta
Vi posi a vigilar:
Poteasi de la festa
Il morto contentar.

Ahi, ma la tomba è cuna
Al picciolo vampir!
Al lume de la luna
Vuol tutte notti uscir.

Vien, su le tempie ardenti
Co' i vanni aperti sta:
Gli scuote lenti lenti,
E addormentar mi fa.

Susurra a l'alma stanca
Un'ombra ed un ruscel,
Ed una fronte bianca
Ride tra un nero vel.

Così, mentr'ei del mite
Sonno m'irriga e tien,
Morde con due ferite
L'umida tempia e 'l sen.

Per quelle il rosso sangue
Tutto mi sugge Amor,
E vaneggiando langue
La vita al capo e al cuor.

Ma, perché più non possa
Il reo vampiro uscir,
Dee su l'aperta fossa
Un prete benedir.

L'incanto allor si scioglie
E il morto in cener va;
Più da vestirsi spoglie
Il dèmone non ha.

L'avello del tuo petto.
O donna, io l'aprirò:
Il morto piccioletto
Vedervi dentro io vo':

Io vo' che putre e mézzo
Polvere ei torni al fin:
Prete sarà il disprezzo
Ed acqua santa il vin.


11 maggio 1873.


L

MAGGIOLATA

Maggio risveglia i nidi,
Maggio risveglia i cuori;
Porta le ortiche e i fiori,
I serpi e l'usignol.

Schiamazzano i fanciulli
In terra, e in ciel li augelli:
Le donne han ne i capelli
Rose, ne gli occhi il sol.

Tra colli prati e monti
Di fior tutto è una trama:
Canta germoglia ed ama
L'acqua la terra il ciel.

E a me germoglia in cuore
Di spine un bel boschetto;
Tre vipere ho nel petto
E un gufo entro il cervel.


2 maggio 1871.


LI

SERENATA

Le stelle che viaggiano su 'l mare
Dicono – O bella luna, non dormire,
O bella luna, vògliti levare,
Ché noi vogliamo per lo mondo gire.
Vogliam fermarci su la camerella
Ove nel sonno sta nostra sorella,
Nostra sorella splendiente e bruna
Che un mago ci ha rapita, o madre luna. –

Di cima al colle rispondono i pini
E da la riva del fiume gli ontani:
– O stelle da' begli occhi piccolini,
Deh perché fate quei discorsi vani?
Ella ci apparve il dì primo di maggio
Tra un lauro snello e un glorioso faggio,
E dove ella sbocciò ninfa dal suolo
Cresce una rosa e canta un rusignolo. –

Poi che le stelle tramontan nel mare,
Al monte e al piano tace ogni rumore:
La terra buia una camera pare
Ove s'addorme al fin l'uman dolore.
Come breve è la notte, o bella mia!
Desto nel bosco l'uccellin già pia.
L'alba di maggio t'imbianca il verone,
E il saluto del mondo in cuor ti pone.


24-30 novembre 1882.


LII

MATTINATA

Batte a la tua finestra, e dice, il sole:
– Lèvati, bella, ch'è tempo d'amare.
Io ti reco i desir de le viole
E gl'inni de le rose al risvegliare.
Dal mio splendido regno a farti omaggio
Io ti meno valletti aprile e maggio
E il giovin anno che la fuga affrena
Su 'l fior de la tua vaga età serena. –

Batte a la tua finestra, e dice, il vento:
– Per monti e piani ho viaggiato tanto:
Sol uno de la terra oggi è il concento,
E de' vivi e de' morti un solo è il canto.
De' nidi a i verdi boschi ecco il richiamo
– Il tempo torna: amiamo, amiamo, amiamo –
E il sospir de le tombe rinfiorate
– Il tempo passa: amate, amate, amate. –

Batte al tuo cor, ch'è un bel giardino in fiore,
Il mio pensiero, e dice: – Si può entrare?
Io sono un triste antico viatore,
E sono stanco, e vorrei riposare.
Vorrei posar tra questi lieti mai
Un ben sognando che non fu ancor mai:
Vorrei posare in questa gioia pia
Sognando un bene che già mai non fia.


20 marzo 1882.


LIII

DIPARTITA

Quando parto da voi, dolce signora,
Scura la terra e grigio il cielo appare,
Odo gufi cantar dentro e di fuora,
E gli alberi non restan di guardare.
Brulli, stupidi in vista e intirizziti,
Guardano a lungo come sbigottiti:
Guardan, crollano il capo e fuggon via,
E tornan sempre. Oh trista compagnia!

– O trista compagnia, che cosa vuoi? –
– Noi ti guardiamo perché morto sei.
Noi siam gli spettri de' pensieri tuoi,
Noi siam gli spettri de' pensier di lei.
Ier tra canti d'uccelli e tutti in fiore:
Oh come fugge la vita e l'amore!
Oggi ti accompagnamo al cimitero:
Oh come freddo e lungo è il tempo nero! –


Perugia, 23 luglio 1878.


LIV

DISPERATA

Su 'l caval de la Morte Amor cavalca
E traesi dietro catenato il cuore:
Ma il cuor s'annoia tra la serva calca
Sdegnoso di seguire il vil signore:
I lacci spezza e glie li gitta in faccia
Sorgendo con disdegno e con minaccia:
– Giù da la sella, Amor, poltrone iddio!
Io sol ti feci, e tu se' schiavo mio.

Signor ti feci nel pensier mio vano,
Schiavo ti rendo nel pensier mio forte:
Tutte le briglie io voglio a la mia mano:
A me il nero cavallo de la Morte! –
E monta e sprona il cavaliere ardito
Salutando co 'l cenno l'infinito.
E sotto il trotto dei cavallo nero
Rimbomba il mondo come un cimitero.


Roma, 19 dicembre 1883.


LV

BALLATA DOLOROSA

Una pallida faccia e un velo nero
Spesso mi fa pensoso de la morte;
Ma non in frotta io cerco le tue porte,
Quando piange il novembre, o cimitero.

Cimitero m'è il mondo allor che il sole
Ne la serenità di maggio splende
E l'aura fresca move l'acque e i rami,
E un desio dolce spiran le viole
E ne le rose un dolce ardor s'accende
E gli uccelli tra 'l verde fan richiami:
Quando più par che tutto 'l mondo s'ami
E le fanciulle in danza apron le braccia,
Veggo tra 'l sole e me sola una faccia,
Pallida faccia velata di nero.


28 aprile 1886.


LVI

DAVANTI A UNA CATTEDRALE

Trionfa il sole, e inonda
La terra a lui devota:
Ignea ne l'aria immota
L'estate immensa sta.

Laghi di fiamma sotto
I dòmi azzurri inerte
Paiono le deserte
Piazze de la città.

Là spunta una sudata
Fronte, ed è orribil cosa:
La luce vaporosa
La ingialla di pallor.

Dite: fa fresco a l'ombra
De le navate oscure,
Ne l'urne bianche e pure,
O teschi de i maggior?


19 agosto 1875.


LVII

BRINDISI FUNEBRE

Su 'l viso de l'amore
La rosa illanguidì,
Senza lasciarmi un fiore
La gioventù fuggì.

Lo stuol de l'ore danza
Lontano omai da me:
Con esse è la speranza,
L'illusion, la fé.

Gli affetti alti ed intensi
Cui fu negato il fin,
I desidèri immensi
Irrisi dal destin,

Tutti nel mio pensiero
Tutti sepolti io gli ho;
E al fósco cimitero
Custode fósco io sto.

Ma i nervi ancora ho forti:
Beviam, beviamo ancor:
Beviam, beviamo a i morti;
Con essi sta il mio cuor.

Sotto la terra nera
Giaccion ad aspettar;
La dolce primavera
Forse li fa svegliar.

Senton de i freschi venti
L'alito ed il sospir,
Senton fra l'ossa algenti
La verde erba salir.

Lo senti il dolce aprile,
Il sol lo vedi tu?
O pargolo gentile,
Solo tu sei laggiù?

Dal suo lontano avello
Ti parla, o fanciullin,
Il bianco mio fratello
Dal bel castaneo crin?

Gli avi ne i giorni fóschi
Ti vengono a cullar,
L'uno da i colli tóschi,
L'altro dal tósco mar?

O sola e mesta al petto
La madre mia ti tien?
Riposa, o fanciulletto,
Sopra il fidato sen.

Beviamo. Ahi che nel cielo
Impallidisce il sol,
E mi circonda il gelo,
E si sprofonda il suol.

Come uno stuol di gufi
A vecchio monaster,
Tra gli umidicci tufi
Singhiozzano i pensier.

Per questo buio fondo
Chi è chi è che va?
Esiste ancora il mondo,
La gioia e la beltà?

Ne' lucidi paesi
Ancora esiste amor?
Io giù tra' morti scesi
Ed ho sepolto il cuor.


Settembre 1874.


LVIII

SAN MARTINO

La nebbia a gl'irti colli
Piovigginando sale,
E sotto il maestrale
Urla e biancheggia il mar;

Ma per le vie del borgo
Dal ribollir de' tini
Va l'aspro odor de i vini
L'anime a rallegrar.

Gira su' ceppi accesi
Lo spiedo scoppiettando:
Sta il cacciator fischiando
Su l'uscio a rimirar

Tra le rossastre nubi
Stormi d'uccelli neri,
Com'esuli pensieri,
Nel vespero migrar.


8 dicembre 1883.


LIX

IN CARNIA

Su le cime de la Tenca
Per le fate è un bel danzar.
Un tappeto di smeraldo
Sotto al cielo il monte par.

Nel mattin perlato e freddo
De le stelle al muto albor
Snelle vengono le fate
Su moventi nubi d'òr.

Elle vengon con l'aurora
Di Germania ivi a danzar.
Treman l'ombre de gli abeti
Nere e verdi al trapassar.

De la But che irrompe e scroscia
Elle ridono al fragor,
E in quel vortice d'argento
Striscian via le chiome d'òr.

Freddo e nitido è il lavacro,
Ed il sole anche non par.
Su la vetta de la Tenca
Incominciano a danzar.

Bianche in vesta, rossi i veli,
I capelli nembi d'òr,
Che abbandonano ridenti
De gli zefiri a l'amor.

Poi con voce arguta e molle,
Sì che d'arpe un suono par,
Le sorelle de la Carnia
Incominciano a chiamar.

Tra il profumo de gli abeti
Ed il balsamo de i fior
Da le valli ascende il coro
Del mistero e de l'amor.

Su la rupe del Moscardo
È uno spirito a penar:
Sta con una clava immane
La montagna a sfracellar.

Quando vengono le fate,
Egli oblia l'aspro lavor;
E sospeso il mazzapicchio
Guarda e palpita d'amor.

Che le fate al travaglioso
Mai sorridano, non par:
Il selvaggio su la rupe
Si contenta di guardar,

E tal volta un cappel verde
Ei si mette per amor,
E d'un bel mantello rosso
Ei riveste il suo dolor.

Ahi, da tempo in su la Tenca
Niuna fata non appar:
Sol la But tra i verdi orrori
S'ode argentea scrosciar,

E il dannato su 'l Moscardo
Senza più tregua d'amor
Notte e dì co 'l mazzapicchio
Rompe il monte e il suo furor.

Ahi, le vaghe fantasie
Dal mio spirito esulâr,
E il torrente di memoria
Odo funebre mugghiar:

Niun fantasima di luce
Cala omai nel chiuso cuor,
E lo rompe a falda a falda
Il corruccio ed il dolor.


Piano d'Arta, 1 agosto 1885.


LX

VISIONE

Il sole tardo ne l'invernale
Ciel le caligini scialbe vincea,
E il verde tenero de la novale
Sotto gli sprazzi del sol ridea.

Correva l'onda del Po regale,
L'onda del nitido Mincio correa:
Apriva l'anima pensosa l'ale
Bianche de' sogni verso un'idea.

E al cuor nel fiso mite fulgore
Di quella placida fata morgana
Riaffacciavasi la prima età,

Senza memorie, senza dolore,
Pur come un'isola verde, lontana
Entro una pallida serenità.


Verona, 1 febbraio 1883.



LIBRO QUARTO


LXI

AD ALESSANDRO D'ANCONA

O de' cognati e de i dispersi miti
Per la selva d'Europa indagatore,
Mentre tu nozze appresti e i dolci riti
Affretti in cuore,

Io, dove ride al sol da l'infinito
Rincrespamento del ceruleo seno
E al ciel con echi mille e al breve lito
Plaude il Tirreno,

E digradando giù dal colle aprico
Per biancheggiante di palagi traccia
La verde antica terra al glauco amico
Porge le braccia,

In queste di salute aure frementi
Terse le nebbie de lo spirto impure,
Dato il cuore a gli amici e date a i venti
Freschi le cure,

Anche una volta io qui libo a le dee
Che de la mente mia seggono in cima,
E t'accompagno le camene argee
Con la mia rima.

Non io tinger vorrei di dotta polve
A la sposa il vel bianco ed i pensieri
Né schiuder quei che un'età grossa involve
Grossi misteri.

Dannosa etade! Solitario mostro
La morte allor su 'l cieco mondo incombe
Con mille aspetti, e l'uomo esce dal chiostro
Sol per le tombe.

Ne i boschi infuria e via per valli e gioghi
Una danza di forme atre e maligne
Ch'odiano il sole: l'orrida de' roghi
Vampa le tigne.

Da l'aspre torri e dal cenobio muto,
Dal folto dòmo d'irti steli inserto,
Par che la vita l'ultimo saluto
Mandi al deserto.

Quindi l'accidia rea ch'anco inimica
La natura e lo spirto, ed impossente
L'uomo, che un sogno torbido affatica,
Aspira al niente.

L'ombra di morte e su da la marina
Di Teti il pianto fuor de le ftie ville
Seguìa tra i carri e l'armi la divina
Forza d'Achille.

Ma ei pugnava i giorni, e, a la romita
Notte citareggiando in su l'egea
Riva, a Dite a le Muse ed a la vita
Breve indulgea.

Pigri terror de l'evo medio, prole
Negra de la barbarie e del mistero,
Torme pallide, via! Si leva il sole,
E canta Omero.


Livorno, 16-17 agosto 1871.


LXII

PRIMAVERE ELLENICHE
(I. EOLIA)

Lina, brumaio torbido inclina,
Ne l'aer gelido monta la sera:
E a me ne l'anima fiorisce, o Lina,
La primavera.
In lume roseo, vedi, il nivale
Fedriade vertice sorge e sfavilla,
E di Castalia l'onda vocale
Mormora e brilla.

Delfo a' suoi tripodi chiaro sonanti
Rivoca Apolline co' nuovi soli,
Con i virginei peana e i canti
De' rusignoli.

Da gl'iperborei lidi al pio suolo
Ei riede, a' lauri dal pigro gelo:
Due cigni il traggono candidi a volo:
Sorride il cielo.

Al capo ha l'aurea benda di Giove;
Ma nel crin florido l'aura sospira
E con un tremito d'amor gli move
In man la lira.

D'intorno girano come in leggera
Danza le Cicladi patria del nume,
Da lungi plaudono Cipro e Citera
Con bianche spume.

E un lieve il séguita pe 'l grande Egeo
Legno, a purpuree vele, canoro:
Armato règgelo per l'onde Alceo
Dal plettro d'oro.

Saffo dal candido petto anelante
A l'aura ambrosia che dal dio vola,
Dal riso morbido, da l'ondeggiante
Crin di viola,

In mezzo assidesi. Lina, quieti
I remi pendono: sali il naviglio.
Io, de gli eolii sacri poeti
Ultimo figlio,

Io meco traggoti per l'aure achive:
Odi le cetere tinnir: montiamo:
Fuggiam le occidue macchiate rive,
Dimentichiamo.


[ 8 dicembre 1871 ].


LXIII

PRIMAVERE ELLENICHE
(II. DORICA)

Sai tu l'isola bella, a le cui rive
Manda il Ionio i fragranti ultimi baci,
Nel cui sereno mar Galatea vive
E su' monti Aci?

De l'ombroso pelasgo Erice in vetta
Eterna ride ivi Afrodite e impera,
E freme tutt'amor la benedetta
Da lei costiera.

Amor fremono, amore, e colli e prati,
Quando la Ennea da' raddolciti inferni
Torna co 'l fior de' solchi a i lacrimati
Occhi materni.

Amore, amor, susurran l'acque; e Alfeo
Chiama ne' verdi talami Aretusa
A i noti amplessi ed al concento acheo
L'itala musa.

Amore, amore, de' poeti a i canti
Ricantan le cittadi, e via pe' fòri
Doriesi prorompono baccanti
Con cetre e fiori.

Ma non di Siracusa o d'Agrigento
Chied'io le torri: quivi immenso ondeggia
L'inno tebano ed ombrano ben cento
Palme la reggia.

La valle ov'è che i bei Nèbrodi monti
Solitaria coronano di pini,
Ove Dafni pastor dicea tra i fonti
Carmi divini?

– Oh di Pèlope re tenere il suolo,
Oh non m'avvenga, o d'aurei talenti
Gran copia, e non de l'agil piede a volo
Vincere i venti!

Io vo' da questa rupe erma cantare,
Te fra le braccia avendo e via lontano
Calar vedendo l'agne bianche al mare
Siciliano. –

Cantava il dorio giovine felice,
E tacean gli usignoli. A quella riva,
O chiusa in un bel vel di Beatrice
Anima argiva,

Ti rapirò nel verso; e tra i sereni
Ozi de le campagne a mezzo il giorno,
Tacendo e rifulgendo in tutti i seni
Ciel, mare, intorno,

Io per te sveglierò da i colli aprichi
Le Driadi bionde sovra il piè leggero
E ammiranti a le tue forme gli antichi
Numi d'Omero.

Muoiono gli altri dèi: di Grecia i numi
Non sanno occaso; ei dormon ne' materni
Tronchi e ne' fiori, sopra i monti i fiumi
I mari eterni.

A Cristo in faccia irrigidì ne i marmi
Il puro fior di lor bellezze ignude:
Ne i carmi, o Lina, spira sol ne i carmi
Lor gioventude;

E, se gli evòca d'una bella il viso
Innamorato o d'un poeta il core,
Da la santa natura ei con un riso
Lampeggian fuore.

Ecco danzan le Driadi, e – Qual etade –
Chieggon le Oreadi – ti portò sì bella?
Da quali vieni ignote a noi contrade,
Dolce sorella?

Mesta cura a te siede in fra le stelle
De gli occhi. Forse ti ferì Ciprigna?
Crudel nume è Afrodite ed a le belle
Forme maligna.

Sola tra voi mortali Elena argea
Di nepente a gli eroi le tazze infuse;
Ma noi sappiam quanti misteri Gea
Nel sen racchiuse.

Noi coglierem per te balsami arcani
Cui lacrimâr le trasformate vite,
E le perle che lunge a i duri umani
Nudre Anfitrite.

Noi coglierem per te fiori animati,
Esperti de la gioia e de l'affanno:
Ei le storie d'amor de' tempi andati
Ti ridiranno;

Ti ridiranno il gemer de la rosa
Che di desio su 'l tuo bel petto manca,
E gl'inni, nel tuo crin, de la fastosa
Sorella bianca.

Poi nosco ti addurrem ne le fulgenti
De l'ametista grotte e del cristallo,
Ove eterno le forme e gli elementi
Temprano un ballo.

T'immergerem ne i fiumi ove il concento
De' cigni i cori de le Naidi aduna:
Su l'acque i fianchi tremolan d'argento
Come la luna.

Ti leverem su i gioghi al ciel vicini
Che Zeus, il padre, più benigno mira,
Ove d'Apollo freme entro i divini
Templi la lira.

Ivi, raccolta ne le aulenti sale
Nostre, al bell'Ila ti farem consorte,
Ila che noi rapimmo a la brumale
Ombra di morte. –

Ahi, da che tramontò la vostra etate
Vola il dolor su le terrene culle!
Questo raggio d'amor no 'l m'invidiate,
Greche fanciulle.

La cura ignota che il bel sen le morde
Io tergerò co 'l puro mèle ascreo,
L'addormirò co' le tebane corde.
Se fossi Alceo,

La persona gentil ne lo spirtale
Fulgor de gl'inni irradiar vorrei,
Cingerle il molle crin co' l'immortale
Fior de gli dèi,

E, mentre nel giacinto il braccio folce
E del mio lauro la protegge un ramo,
Chino su 'l cuore mormorarle – O dolce
Signora, io v'amo.


10-18 aprile 1872.


LXIV

PRIMAVERE ELLENICHE
(III. ALESSANDRINA)

Gelido il vento pe' lunghi e candidi
Intercolonnii ferìa, su tumuli
Di garzonetti e spose
Rabbrividian le rose

Sotto la pioggia, che, lenta, assidua,
Sottil, da un grigio cielo di maggio
Battea con faticoso
Metro il piano fangoso;

Quando, percossa d'un lieve tremito,
Ella il bel velo d'intorno a gli omeri
Raccolto al seno avvinse
E tutta a me si strinse:

Voluttuosa ne l'atto languido
Tra i gotici archi, quale tra' larici
Gentil palma volgente
Al nativo oriente.

Guardò serena per entro i lugubri
Luoghi di morte; levò la tenue
Fronte, pallida e bella,
Tra le floride anella

Che a l'agil collo scendendo incaute
Tutta di molle fulgor la irradiano:
E piovvemi nel cuore
Sguardi e accenti d'amore

Lunghi, soavi, profondi: eolia
Cetra non rese più dolci gemiti
Mai né sì molli spirti
Di Lesbo un dì tra i mirti.

Su i muti intanto marmi la serica
Vesta strisciava con legger sibilo,
Spargeanmi al viso i venti
Le sue chiome fluenti.

Non mai le tombe sì belle apparvero
A me ne i primi sogni di gloria.
Oh amor, solenne e forte
Come il suggel di morte!

Oh delibato fra i sospir trepidi
Su i cari labri fiore de l'anima
E intraviste ne' baci
Interminate paci!

Oh favolosi prati d'Elisio,
Pieni di cetre, ai ludi eroici
E del purpureo raggio
Di non fallace maggio,

Ove in disparte bisbigliando errano
(Né patto umano né destin ferreo
L'un da l'altra divelle)
I poeti e le belle!


[ 21-27 maggio 1872 ].


LXV

UNA RAMA D'ALLORO

Io son, Dafne, la tua greca sorella,
Che vergin bionda su 'l Peneo fuggia
E verdeggiai pur ieri arbore snella
Per l'Appia via.

Tra i cippi e i negri ruderi soletta
Sotto il ciel triste io memore sognava
D'un tumulo ignorato in su la vetta,
E riguardava.

Guardava i colli ceruli del Lazio,
E a l'aura che da Tivoli traea
Inchinandomi i fulgidi d'Orazio
Carmi dicea.

Mi udivano gli uccelli, e saltellanti
Per l'aer freddo su i nudati rami
A le rose ed al maggio e al sole e a i canti
Facean richiami.

Ahi sempre infesti a me i poeti fûro!
M'invidiò Enotrio a' sassi antichi e pii,
E tra le mani del poeta duro
Inaridii.

Avvolta in serto, oh, foss'io stata ombrella
A la tua fronte! su la chioma nera
Come esultato avrei, dolce sorella,
Io verde e altera!

E ne la lingua che tra noi s'intende,
China a l'orecchio puro e delicato,
Gli elleni amori e l'itale leggende
T'avrei cantato.

L'occhio tuo mesto a le fraterne note
Sorriso avrebbe con ardor gentile,
E rifiorito de le molli gote
Saria l'aprile.


Roma, 18 marzo 1877.



LIBRO QUINTO


LXVI

RIMEMBRANZE DI SCUOLA

Era il giugno maturo, era un bel giorno
Del vital messidoro, e tutta nozze
Ne gli amori del sole ardea la terra.
Igneo torrente dilagava il sole
Pe' deserti del cielo incandescenti,
E al suo divino riso il mar ridea.
Non rideva io fanciullo: il nero prete
Con voce chioccia bestemmiava Io amo,
Ed un fastidio era il suo viso: intanto
A la finestra de la scuola ardito
S'affacciava un ciliegio, e co' i vermigli
Frutti allegro ammiccava e arcane storie
Bisbigliava con l'aura. Onde, obliato
Il prete e de le coniugazioni
In su la gialla pagina le file
Quai di formiche ne la creta grigia,
Io tutto desioso liberava
Gli occhi e i pensier per la finestra, quindi
I monti e il cielo e quinci la lontana
Curva del mare a contemplar. Gli uccelli
Si mescean ne la luce armonizzando
Con mille cori: a i pigolanti nidi
Parlar, custodi pii, gli alberi antichi
Pareano e gli arbuscelli a le ronzanti
Api ed i fiori sospirare al bacio
De le farfalle; e steli ed erbe e arene
Formicolavan d'indistinti amori
E di vite anelanti a mille a mille
Per ogni istante. E li accigliati monti
Ed i colli sereni e le ondeggianti
Mèssi tra i boschi ed i vigneti bionde,
E fin l'orrida macchia ed il roveto
E la palude livida, pareano
Godere eterna gioventù nel sole.
Quando, come non so, quasi dal fonte
D'essa la vita rampollommi in cuore
Il pensier de la morte, e con la morte
L'informe niente; e d'un sol tratto, quello
Infinito sentir di tutto al nulla
Sentire io comparando, e me veggendo
Corporalmente ne la negra terra
Freddo, immobile, muto, e fuor gli augelli
Cantare allegri e gli alberi stormire
E trascorrere i fiumi ed i viventi
Ricrearsi nel sol caldo irrigati
De la divina luce, io tutto e pieno
L'intendimento de la morte accolsi;
E sbigottii veracemente. Anch'oggi
Quel fanciullesco imaginar risale
Ne la memoria mia; quindi, sì come
Gitto di gelid'acqua, al cor mi piomba.


Bologna, novembre 1871.


LXVII

IDILLIO DI MAGGIO

Maggio, idillio di Dante e Beatrice,
Che di tentazioni
Le vie, d'acacie infiori la pendice,
Le case di mosconi:

Maggio, che sovra l'ossa ed i carcami
Rose educhi e viole,
Ed al postribol de la vita chiami
Divin lenone il sole:

Con le dolci memorie e i cari affanni,
Maggio, da me che vuoi?
Le sono storie omai di tremil'anni;
Vecchio maggio, m'annoi!

Va', molli sonni reca e susurranti
Ombre a pastori e cani,
A Maria fiori e litanie, briganti
De l'arsa Puglia a i piani:

Va' da maggesi e da nidi e da fronde
Ti cantin selve e prati,
E ti bestemmi chi ne l'ossa asconde
Di Venere i peccati:

A questo tuo, che fra cortili e mura
M'irride, etico raggio,
Io tempro una canzon forte e sicura,
E te la gitto, o maggio.

Lo so: roseo fra' tuoi molli vapori
Espero in ciel ridea,
E tra le prime stelle e i primi fiori
Ella uscì come dea.

De le viole onde avea colmo il grembo
Gittommi; e il volto ascose,
E fuggì. Sento il suo ceruleo lembo
Sibiliar tra le rose

Ancora: ancor su la sua testa bella
Soavemente inchina
Vedo tremar dal puro ciel la stella,
La stella vespertina.

E da la valle un fremito salìa,
Un nembo inebriante;
E correa per i colli un'armonia;
Ed io pensava, o Dante,

A te, quando t'arrise un verecondo
Viso tra i bianchi veli,
E tu sentivi piovere su 'l mondo
Amor da tutti i cieli.

– Come al sol novo un desio di viola
S'apre il mio cuore a te.
La costoletta mi ritorna a gola:
Fa' venire il caffè. –

Così diceami un giorno de i cortesi
Ippocastani al rezzo.
Deh, quante dinastie di re cinesi
Passaro in questo mezzo?

Or son quell'io? e questo è quel mio cuore,
Questo che in sen mi batte,
Qual procellosa l'ala del condore
Su l'alte selve intatte?

Oh come solo il mio pensiero è bello
Ne la sua forza pura!
Oh come scolorisce in faccia a quello
Questa vecchia natura!

Oh come è gretta questa mascherata
Di rose e di viole!
Questa volta del ciel come è serrata!
Come sei smorto, o sole!


Bologna, maggio 1869 [ - novembre 1872 ].


LXVIII

IDILLIO MAREMMANO

Co 'l raggio de l'april nuovo che inonda
Roseo la stanza tu sorridi ancora
Improvvisa al mio cuore, o Maria bionda;

E il cuor che t'obliò, dopo tant'ora
Di tumulti oziosi in te riposa,
O amor mio primo, o d'amor dolce aurora.

Ove sei? senza nozze e sospirosa
Non passasti già tu; certo il natio
Borgo ti accoglie lieta madre e sposa;

Ché il fianco baldanzoso ed il restio
Seno a i freni del vel promettean troppa
Gioia d'amplessi al marital desio.

Forti figli pendean da la tua poppa
Certo, ed or baldi un tuo sguardo cercando
Al mal domo caval saltano in groppa.

Com'eri bella, o giovinetta, quando
Tra l'ondeggiar de' lunghi solchi uscivi
Un tuo serto di fiori in man recando,

Alta e ridente, e sotto i cigli vivi
Di selvatico fuoco lampeggiante
Grande e profondo l'occhio azzurro aprivi!

Come 'l cìano seren tra 'l biondeggiante
Or de le spiche, tra la chioma filava
Fioria quell'occhio azzurro; e a te d'avante

La grande estate, e intorno, fiammeggiava;
Sparso tra' verdi rami il sol ridea
Del melogran, che rosso scintillava.

Al tuo passar, siccome a la sua dea,
Il bel pavon l'occhiuta coda apria
Guardando, e un rauco grido a te mettea.

Oh come fredda indi la vita mia,
Come oscura e incresciosa è trapassata!
Meglio era sposar te, bionda Maria!

Meglio ir tracciando per la sconsolata
Boscaglia al piano il bufolo disperso,
Che salta fra la macchia e sosta e guata,

Che sudar dietro al piccioletto verso!
Meglio oprando obliar, senza indagarlo,
Questo enorme mister de l'universo!

Or freddo, assiduo del pensiero il tarlo
Mi trafora il cervello, ond'io dolente
Misere cose scrivo e tristi parlo.

Guasti i muscoli e il cuor da la rea mente,
Corrose l'ossa dal malor civile,
Mi divincolo in van rabbiosamente.

Oh lunghe al vento sussurranti file
De' pioppi! oh a le bell'ombre in su 'l sacrato
Ne i dì solenni rustico sedile,

Onde bruno si mira il piano arato
E verdi quindi i colli e quindi il mare
Sparso di vele, e il campo santo è a lato!

Oh dolce tra gli eguali il novellare
Su 'l quieto meriggio, e a le rigenti
Sere accogliersi intorno al focolare!

Oh miglior gloria, a i figliuoletti intenti
Narrar le forti prove e le sudate
Cacce ed i perigliosi avvolgimenti

Ed a dito segnar le profondate
Oblique piaghe nel cignal supino,
Che perseguir con frottole rimate

I vigliacchi d'Italia e Trissottino.


Aprile 1867 [ settembre 1872 ].


LXIX

CLASSICISMO E ROMANTICISMO

Benigno è il sol; de gli uomini al lavoro
Soccorre e allegro l'ama:
Per lui curva la vasta messe d'oro
Freme e la falce chiama.

Egli alto ride al vomero che splende
In tra le brune zolle
Umido, mentre il bue lento discende
Il risolcato colle.

Sotto il velo de' pampini i gemmanti
Grappoli infiamma e indora,
E a gli ebri de l'autunno ultimi canti
Mesto sorride ancora.

Egli de la città fra i neri tetti
Un suo raggio disvia,
E a la fanciulla va che i giovinetti
Dì nel lavoro oblia,

E una canzon di primavera e amore
Le consiglia; a lei balza
Il petto, e ne la luce il canto e il cuore,
Come lodola, inalza.

Ma tu, luna, abbellir godi co 'l raggio
Le ruine ed i lutti;
Maturar nel fantastico viaggio
Non sai né fior né frutti.

Dove la fame al buio s'addormenta,
Tu per le impòste vane
Entri e la svegli, a ciò che il freddo senta
E pensi a la dimane.

Poi su le guglie gotiche ti adorni
Di lattei languori,
E civetti a' poeti perdigiorni
E a' disutili amori.

Poi scendi in camposanto: ivi rinfreschi
Pomposa il lume stanco,
E vieni in gara con le tibie e i teschi
Di baglior freddo e bianco.

Odio la faccia tua stupida e tonda,
L'inamidata cotta,
Monacella lasciva ed infeconda,
Celeste paolotta.


[ Settembre 1869 - 13 febbraio 1873].


LXX

VENDETTE DELLA LUNA

Te, certo, te, quando la veglia bruna
Lenti adduceva i sogni a la tua culla,
Te certo riguardò la bianca luna,
Bianca fanciulla.

A te scese la dea ne la sua stanca
Serenitade e con i freddi baci
China al tuo viso – O fanciulletta bianca,
Disse – mi piaci. –

E al fatal guardo, ove or s'annega e perde
L'anima mia, piovea lene il gentile
Tremolar del suo lume entro una verde
Notte d'aprile.

Ti deponea tra i labbri la querela
De l'usignuolo al frondeggiante maggio,
Quando la selva odora e argentea vela
Nube il suo raggio;

E del languor niveo fulgente, ond'ella
Ride a l'Aurora da le rosee braccia,
Ti diffondeva la persona bella,
La bella faccia:

Onde a' cari occhi tuoi, dal cui profondo
Tutto lampeggia quel che ama e piace,
Nel roseo tempo che sorride il mondo
Io chiesi pace:

Pace al tuo riso, ove fiorisce pura
La voluttà che nel mio spirto dorme,
E che promesso m'ha l'alma natura
Per mille forme.

Ahi, ma la tua marmorea bellezza
Mi sugge l'alma, e il senso de la vita
M'annebbia; e pur ne libo una dolcezza
Strana, infinita:

Com'uom che va sotto la luna estiva
Tra verdi susurranti alberi al piano;
Che in fantastica luce arde la riva
Presso e lontano,

Ed ei sente un desio d'ignoti amori
Una lenta dolcezza al cuor gravare,
E perdersi vorria tra i muti albori
E dileguare.


Febbraio-marzo 1873.


LXXI

Da la qual par ch'una stella si mova
G. CAVALCANTI     

Era un giorno di festa, e luglio ardea
Basso in un'afa di nuvole bianche:
Ne la chiesa lombarda il dì scendea
Per le bifori giallo in su le panche.
Da la porta arcuata, che i leoni
Millenni di granito ama carcar,
Il rumor de la piazza e le canzoni
E i muggiti veniano in fra gli altar.

La messa era cantata, ed i boati
De l'organo chiamavano il Signore.
In fondo de la chiesa due soldati
Guardavan fisi ne l'altar maggiore.
Tra quella festa di candele accese,
Tra quella pompa di broccati e d'òr.
Ei pensavan la chiesa del paese
Nel mese di Maria piena di fior.

Sotto la volta d'una bruna arcata,
In tra due rosse colonnette snelle,
Stava la bella donna inginocchiata,
Giunte le mani, senza guanti, belle.
Umido a la piumata ombra del nero
Cappello il nero sguardo luccicò,
E in un lampo di fede il suo mistero
Quel fior di giovinezza a Dio mandò.

Io vidi, come un dì Guido vedea,
Uscir da quei levati occhi una stella,
E da i labbri, che a pena ella movea,
Un'alata figura d'angelella.
La stella tremolando un lume pio
Sorridea, sorridea, non so a che;
Salìa la supplicante angela a Dio
Chiamando in atti – Signor mio, mercé.

Si volse il prete a dire: Ite. Potente
Ruppe il sole a le nubi sormontando,
E incoronò d'un'iride scendente
La bella donna che sorgea pregando.
Corse tra le figure bizantine
Vermiglio un riso come di pudor;
Ma la Madonna le pupille chine
Tenea su 'l figlio, e mormorava – Amor.


11-12 luglio 1881.


LXXII

DAVANTI SAN GUIDO

I cipressi che a Bolgheri alti e schietti
Van da San Guido in duplice filar,
Quasi in corsa giganti giovinetti
Mi balzarono incontro e mi guardâr.

Mi riconobbero, e – Ben torni omai –
Bisbigliaron vèr me co 'l capo chino –
Perché non scendi? perché non ristai?
Fresca è la sera e a te noto il cammino.

Oh sièditi a le nostre ombre odorate
Ove soffia dal mare il maestrale:
Ira non ti serbiam de le sassate
Tue d'una volta: oh, non facean già male!

Nidi portiamo ancor di rusignoli:
Deh perché fuggi rapido così?
Le passere la sera intreccian voli
A noi d'intorno ancora. Oh resta qui!

– Bei cipressetti, cipressetti miei,
Fedeli amici d'un tempo migliore,
Oh di che cuor con voi mi resterei –
Guardando io rispondeva – oh di che cuore!

Ma, cipressetti miei, lasciatem'ire:
Or non è più quel tempo e quell'età.
Se voi sapeste!... via, non fo per dire,
Ma oggi sono una celebrità.

E so legger di greco e di latino,
E scrivo e scrivo, e ho molte altre virtù;
Non son più, cipressetti, un birichino,
E sassi in specie non ne tiro più.

E massime a le piante. – Un mormorio
Pe' dubitanti vertici ondeggiò,
E il dì cadente con un ghigno pio
Tra i verdi cupi roseo brillò.

Intesi allora che i cipressi e il sole
Una gentil pietade avean di me,
E presto il mormorio si fe' parole:
– Ben lo sappiamo: un pover uomo tu se'.

Ben lo sappiamo, e il vento ce lo disse
Che rapisce de gli uomini i sospir,
Come dentro al tuo petto eterne risse
Ardon che tu né sai né puoi lenir.

A le querce ed a noi qui puoi contare
L'umana tua tristezza e il vostro duol;
Vedi come pacato e azzurro è il mare,
Come ridente a lui discende il sol!

E come questo occaso è pien di voli,
Com'è allegro de' passeri il garrire!
A notte canteranno i rusignoli:
Rimanti, e i rei fantasmi oh non seguire;

I rei fantasmi che da' fondi neri
De i cuor vostri battuti dal pensier
Guizzan come da i vostri cimiteri
Putride fiamme innanzi al passegger.

Rimanti; e noi, dimani, a mezzo il giorno,
Che de le grandi querce a l'ombra stan
Ammusando i cavalli e intorno intorno
Tutto è silenzio ne l'ardente pian,

Ti canteremo noi cipressi i cori
Che vanno eterni fra la terra e il cielo:
Da quegli olmi le ninfe usciran fuori
Te ventilando co 'l lor bianco velo;

E Pan l'eterno che su l'erme alture
A quell'ora e ne i pian solingo va
Il dissidio, o mortal, de le tue cure
Ne la diva armonia sommergerà. –

Ed io – Lontano, oltre Appennin, m'aspetta
La Tittì – rispondea –; lasciatem'ire.
È la Tittì come una passeretta,
Ma non ha penne per il suo vestire.

E mangia altro che bacche di cipresso;
Né io sono per anche un manzoniano
Che tiri quattro paghe per il lesso.
Addio, cipressi! addio, dolce mio piano! –

– Che vuoi che diciam dunque al cimitero
Dove la nonna tua sepolta sta? –
E fuggìano, e pareano un corteo nero
Che brontolando in fretta in fretta va.

Di cima al poggio allor, dal cimitero,
Giù de' cipressi per la verde via,
Alta, solenne, vestita di nero
Parvemi riveder nonna Lucia:

La signora Lucia, da la cui bocca,
Tra l'ondeggiar de i candidi capelli,
La favella toscana, ch'è sì sciocca
Nel manzonismo de gli stenterelli,

Canora discendea, co 'l mesto accento
De la Versilia che nel cuor mi sta,
Come da un sirventese del trecento,
Piena di forza e di soavità.

O nonna, o nonna! deh com'era bella
Quand'ero bimbo! ditemela ancor,
Ditela a quest'uom savio la novella
Di lei che cerca il suo perduto amor!

– Sette paia di scarpe ho consumate
Di tutto ferro per te ritrovare:
Sette verghe di ferro ho logorate
Per appoggiarmi nel fatale andare:

Sette fiasche di lacrime ho colmate,
Sette lunghi anni, di lacrime amare:
Tu dormi a le mie grida disperate,
E il gallo canta, e non ti vuoi svegliare. –

Deh come bella, o nonna, e come vera
È la novella ancor! Proprio così.
E quello che cercai mattina e sera
Tanti e tanti anni in vano, è forse qui,

Sotto questi cipressi, ove non spero,
Ove non penso di posarmi più:
Forse, nonna, è nel vostro cimitero
Tra quegli altri cipressi ermo là su.

Ansimando fuggìa la vaporiera
Mentr'io così piangeva entro il mio cuore;
E di polledri una leggiadra schiera
Annitrendo correa lieta al rumore.

Ma un asin bigio, rosicchiando un cardo
Rosso e turchino, non si scomodò:
Tutto quel chiasso ei non degnò d'un guardo
E a brucar serio e lento seguitò.


23-26 dicembre [ 18 agosto 1886].


LXXIII

NOTTE DI MAGGIO

Non mai seren di più tranquilla notte
Fu salutato dalle vaghe stelle
In riva di correnti e lucid'onde;
E tremolava rorida su 'l verde,
Rompendo l'ombre che scendean da' colli,
L'antica, errante, solitaria luna.

Candida, vereconda, austera luna:
Che vapori e tepor per l'alta notte
Salìano a te da gli arborati colli!
Parea che in gara a le virginee stelle
Si svegliasser le ninfe in mezzo il verde,
E un soave susurro era ne l'onde.

Non tale un navigar d'oblio per l'onde
Ebbero amanti mai sotto la luna,
Qual io disamorato entro il bel verde:
Ché solo a i buoni splender quella notte
Pareami, e da gli avelli e da le stelle
Spirti amici vagar vidi su i colli.

O voi dormenti ne i materni colli,
E voi d'umili tombe a presso l'onde
Guardanti in cielo trapassar le stelle;
Voi sotto il fiso raggio de la luna
Rividi io popolar la cheta notte,
Lievi strisciando su 'l commosso verde.

Deh, quanta parte de l'età mia verde
Rivissi in cima a i luminosi colli,
E vinta al basso rifuggìa la notte!
Quando una forma verso me su l'onde,
Disegnata nel lume de la luna,
Vidi, e per gli occhi le ridean le stelle.

Ricorditi: mi disse. Allor le stelle
Furon velate, e corse ombra su 'l verde,
E di sùbito in ciel tacque la luna;
Acuti lai suonarono pe' colli;
Ed io soletto su le flebili onde
Di sepolcro sentii fredda la notte.

Quando la notte è fitta più di stelle,
A me giova appo l'onde entro il bel verde
Mirar su i colli la sedente luna.


28-30 aprile 1885.


LXXIV

ALL'AUTORE DEL MAGO

O Severino, de' tuoi canti il nido,
Il covo de' tuoi sogni io ben lo so.
Ondeggiante di canape è l'infido
Piano che sfugge al curvo Reno e al Po.

Da gli scopeti de la bassa landa
Pigro il pizzaccherin si rizza a volo:
Con gli strilli di chi mercé dimanda
Levasi de le arzàgole lo stuolo,

Stampando l'ombra su per l'acqua lenta
Ove l'anguilla maturando sta.
Oh desio di canzoni, oh sonnolenta
Smania di sogni ne l'immensità!

Oh largo su gli alti argini del fiume
Risplender rosso de l'estiva sera!
Oh palpitante de la luna al lume
Tenero verdeggiar di primavera!

Quando i pioppi contemplano le stelle
Innamorati con lungo sospir,
Ed un lontano suon di romanelle
Viene da' canapai lento a morir!

Allor che agosto cada, o Severino,
E chiamin l'acqua le rane canore,
Noi tornerem poeti a l'Alberino,
Tutti solinghi in bei pensier d'amore;

Ed a' tuoi pioppi ne le notti chete
Noi chiederem con desiosa fé:
– O alti pioppi che tutto vedete,
Ditene dunque: Biancofiore ov'è?

Siede in riva a un bel fiume? o il colle varca
Tessendo al capo un cerchio agil di fiori?
O dentro una sestina del Petrarca
Beata ride i nostri vani amori? –


1 aprile 1884.



LIBRO SESTO


LXXV

I DUE TITANI


PROMETEO

L'avvoltoio, o fratello, il cuor mi lania
Con piaghe eterne e nuove:
Paziente fratel di Mauritania,
Maledetto sia Giove!

ATLANTE

Ed a me il ciel d'astri e di dèi fervente
Gli ómeri grava e il petto:
O di Scizia fratel mio sapiente,
Giove sia maledetto!

PROMETEO

Intorno a questo capo ove signore
Siede il pensiero eterno,
Intorno al sen che alberga tanto amore,
Stride perpetuo verno.

ATLANTE

Libica estate a me le membra incende.
Io brucio: questa pietra
Del granito, che tienmi, al sol si fende
Con un tinnir di cetra.

PROMETEO

In che peccai? La luce, etereo dono,
Arrisi in cuore e in volto
A l'uom: fatto ei l'avea triste e al suol prono,
Il re d'Olimpo stolto.

ATLANTE

Vil tiranno! dieci anni a faccia a faccia
Gli stetti contro in guerra:
Vòlto in bruto, ei fuggì da le mie braccia
Tremando per la terra.

PROMETEO

Ma io so ch'ei morrà, né per preghiere
Gli apro de i fati il velo:
Ond'ei del fulmin tutto dì mi fere,
Il vigliacco del cielo.

ATLANTE

Pomi a me crescon, di sue mense invidia:
L'Esperidi ognor deste
Guàrdanli a me: oh in vano ei me gl'insidia,
Il ghiottone celeste.

PROMETEO

Da lo scitico mare in lunghi manti
Le azzurre Oceanine
A me surgono, e d'inni e di compianti
Mi ghirlandano il crine.

ATLANTE

E a me danzando vengono amorose
Le Pleiadi, fiorenti
Mie figliuole, d'eroi feconde spose,
Madri d'inclite genti.

PROMETEO

Ferma Io la fatal fuga d'avante
A me, la fera faccia
Volgendo: io canto a la divina errante
La gloria ch'è in sua traccia.

ATLANTE

Cirene a me ne l'odorata sera
Spande le trecce belle,
E pie traverso quella chioma nera
Mi rodono le stelle.

-------------------------

Come opposta s'incontra la corrente
Che da' due poli move.
Te il forte ad una voce e il sapiente
Maledicono, o Giove.


Ottobre 1873.


LXXVI

LA LEGGENDA DI TEODORICO

Su 'l castello di Verona
Batte il sole a mezzogiorno,
Da la Chiusa al pian rintrona
Solitario un suon di corno,
Mormorando per l'aprico
Verde il grande Adige va:
Ed il re Teodorico
Vecchio e triste al bagno sta.

Pensa il dì che a Tulna ei venne
Di Crimilde nel conspetto
E il cozzar di mille antenne
Ne la sala del banchetto,
Quando il ferro d'Ildebrando
Su la donna si calò
E dal funere nefando
Egli solo ritornò.

Guarda il sole sfolgorante
E il chiaro Adige che corre,
Guarda un falco roteante
Sovra i merli de la torre;
Guarda i monti da cui scese
La sua forte gioventù,
Ed il bel verde paese
Che da lui conquiso fu.

Il gridar d'un damigello
Risonò fuor de la chiostra:
– Sire, un cervo mai sì bello
Non si vide a l'età nostra.
Egli ha i piè d'acciaro a smalto,
Ha le corna tutte d'òr. –
Fuor de l'acque diede un salto
Il vegliardo cacciator.

– I miei cani, il mio morello,
Il mio spiedo – egli chiedea;
E il lenzuol quasi un mantello
A le membra si avvolgea.
I donzelli ivano. In tanto
Il bel cervo disparì,
E d'un tratto al re da canto
Un corsier nero nitrì.

Nero come un corbo vecchio,
E ne gli occhi avea carboni.
Era pronto l'apparecchio,
Ed il re balzò in arcioni.
Ma i suoi veltri ebber timore
E si misero a guair,
E guardarono il signore
E no 'l vollero seguir.

In quel mezzo il caval nero
Spiccò via come uno strale,
E lontan d'ogni sentiero
Ora scende e ora sale:
Via e via e via e via,
Valli e monti esso varcò.
Il re scendere vorria,
Ma staccar non se ne può.

Il più vecchio ed il più fido
Lo seguia de' suoi scudier,
E mettea d'angoscia un grido
Per gl'incogniti sentieri:
– O gentil re de gli Amali,
Ti seguii ne' tuoi bei dì,
Ti seguii tra lance e strali,
Ma non corsi mai così.

Teodorico di Verona,
Dove vai tanto di fretta?
Tornerem, sacra corona,
A la casa che ci aspetta? –
– Mala bestia è questa mia,
Mal cavallo mi toccò:
Sol la Vergine Maria
Sa quand'io ritornerò. –

Altre cure su nel cielo
Ha la Vergine Maria:
Sotto il grande azzurro velo
Ella i martiri covria,
Ella i martiri accoglieva
De la patria e de la fé;
E terribile scendeva
Dio su 'l capo al goto re.

Via e via su balzi e grotte
Va il cavallo al fren ribelle:
Ei s'immerge ne la notte,
Ei s'aderge in vèr le stelle.
Ecco, il dorso d'Apennino
Fra le tenebre scompar,
E nel pallido mattino
Mugghia a basso il tósco mar.

Ecco Lipari, la reggia
Di Vulcano ardua che fuma
E tra i bómbiti lampeggia
De l'ardor che la consuma:
Quivi giunto il caval nero
Contro il ciel forte springò
Annitrendo; e il cavaliero
Nel cratere inabissò.

Ma dal calabro confine
Che mai sorge in vetta al monte?
Non è il sole, è un bianco crine;
Non è il sole, è un'ampia fronte
Sanguinosa, in un sorriso
Di martirio e di splendor:
Di Boezio è il santo viso,
Del romano senator.


[ Dicembre 1884 - 20 gennaio 1885 ].


LXXVII

IL COMUNE RUSTICO

O che tra faggi e abeti erma su i campi
Smeraldini la fredda orma si stampi
Al sole del mattin puro e leggero,
O che foscheggi immobile nel giorno
Morente su le sparse ville intorno
A la chiesa che prega o al cimitero

Che tace, o noci de la Carnia, addio!
Erra tra i vostri rami il pensier mio
Sognando l'ombre d'un tempo che fu.
Non paure di morti ed in congreghe
Diavoli goffi con bizzarre streghe,
Ma del comun la rustica virtù

Accampata a l'opaca ampia frescura
Veggo ne la stagion de la pastura
Dopo la messa il giorno de la festa.
Il consol dice, e poste ha pria le mani
Sopra i santi segnacoli cristiani:
– Ecco, io parto fra voi quella foresta

D'abeti e pini ove al confin nereggia.
E voi trarrete la mugghiante greggia
E la belante a quelle cime là.
E voi, se l'unno o se lo slavo invade,
Eccovi, o figli, l'aste, ecco le spade,
Morrete per la nostra libertà. –

Un fremito d'orgoglio empieva i petti,
Ergea le bionde teste; e de gli eletti
In su le fronti il sol grande feriva.
Ma le donne piangenti sotto i veli
Invocavan la Madre alma de' cieli.
Con la man tesa il console seguiva:

– Questo, al nome di Cristo e di Maria,
Ordino e voglio che nel popol sia. –
A man levata il popol dicea, Sì.
E le rosse giovenche di su 'l prato
Vedean passare il piccolo senato,
Brillando su gli abeti il mezzodì.


Piano d'Arta, 10-12 agosto 1885.


LXXVIII

SUI CAMPI DI MARENGO
LA NOTTE DEL SABATO SANTO 1175

Su i campi di Marengo batte la luna; fósco
Tra la Bormida e il Tanaro s'agita e mugge un bosco;
Un bosco d'alabarde, d'uomini e di cavalli,
Che fuggon d'Alessandria da i mal tentati valli.

D'alti fuochi Alessandria giù giù da l'Apennino
Illumina la fuga del Cesar ghibellino:
I fuochi de la lega rispondon da Tortona,
E un canto di vittoria ne la pia notte suona:

– Stretto è il leon di Svevia entro i latini acciari:
Ditelo, o fuochi, a i monti, a i colli, a i piani, a i mari.
Diman Cristo risorge: de la romana prole
Quanta novella gloria vedrai dimani, o sole! –

Ode, e, poggiato il capo su l'alta spada, il sire
Canuto d'Hohenzollern pensa tra sé – Morire
Per man di mercatanti che cinsero pur ieri
A i lor mal pingui ventri l'acciar de' cavalieri! –

E il vescovo di Spira, a cui cento convalli
Empion le botti e cento canonici gli stalli,
Mugola – O belle torri de la mia cattedrale,
Chi vi canterà messa la notte di natale? –

E il conte palatino Ditpoldo, a cui la bionda
Chioma per l'agil collo rose e ligustri inonda,
Pensa – Dal Reno il canto de gli elfi per la bruna
Notte va: Tecla sogna al lume de la luna. –

E dice il magontino arcivescovo – A canto
De la mazza ferrata io porto l'olio santo:
Ce n'è per tutti. Oh almeno foste de l'alpe a' varchi,
Miei poveri muletti d'italo argento carchi! –

E il conte del Tirolo – Figliuol mio, te domane
Saluterà de l'Alpi il sole ed il mio cane:
Tuoi l'uno e l'altro: io, cervo sorpreso da villani,
Cadrò sgozzato in questi grigi lombardi piani. –

Solo, a piedi, nel mezzo del campo, al corridore
Suo presso, riguardava nel ciel l'imperatore:
Passavano le stelle su 'l grigio capo; nera
Dietro garria co 'l vento l'imperial bandiera.

A' fianchi, di Boemia e di Polonia i regi
Scettro e spada reggevano, del santo impero i fregi,
Quando stanche languirono le stelle, e rosseggianti
Ne l'alba parean l'Alpi, Cesare disse – Avanti!

A cavallo, o fedeli! Tu, Wittelsbach, dispiega
Il sacro segno in faccia de la lombarda lega.
Tu intima, o araldo: Passa l'imperator romano,
Del divo Giulio erede, successor di Traiano. –

Deh come allegri e rapidi si sparsero gli squilli
De le trombe teutoniche fra il Tanaro ed il Po,
Quando in cospetto a l'aquila gli animi ed i vessilli
D'Italia s'inchinarono e Cesare passò!


6 aprile 1872.


LXXIX

FAIDA DI COMUNE

Manda a Cuosa in val di Serchio,
Pisa manda ambasciatori:
Del comun di santa Zita
Ivi aspettano i signori.

Ecco vien Bonturo Dati,
Mastro in far baratterie:
Ecco Cino ed ecco Pecchio,
Che spazzarono le vie:

Ecco il Feccia ed ecco il Truglia,
Detti ancor bocche di luccio:
Il miglior di tutti è Nello,
Merciaiuol popolaruccio.

Tutti a nuovo in bell'arnese,
Co 'l mazzocchio e con la spada:
Il fruscìo de le lor séte
Empie tutta la contrada.

Il fruscìo de le lor séte
Chiama il popolo a raccolta:
Gran dispregio han su le ciglia:
Parlan tutti in una volta.

Ma Banduccio di Buonconte,
Grave d'anni e più di gloria
(Tre ferite ebbe di punta,
Due di mazza a la Meloria),

Stando a capo de i pisani,
Come vecchio e maggior deve,
Fatto pria cenno d'onore,
Così disse onesto e breve:

– Vincitori sì, ma stanchi
Di contese e cristiani,
Noi veniamo a segnar pace
Co' lucchesi, noi pisani.

Render Buti, Avane, Asciano,
Prometteste: or ce li date.
E viviam, fratelli, in pace,
Se viviamo in libertate. –

Qui Bonturo si fa innanzi
Tra i lucchesi ambasciatori
Di tre passi, e parla adorno
Con retorici colori.

– Bel castello è Avane, e corte
Fu de i re d'Italia un giorno.
Vi si sente a mezza notte
Pe' querceti un suon di corno.

Vi si sente a mezza notte
La real caccia stormire,
Dietro ad una lepre nera
Un caval nero annitrire.

Perché Astolfo longobardo
D'una lepre ebbe contesa
Con l'abate Sighinulfo,
Qual de' due l'avesse presa:

Onde il re venuto in ira
Trasse in faccia al santo abate
Una mazza, e tutte gli ebbe
Le mascelle sgretolate.

Gran ricordi, e, come a seggio
Di marchese, a Lucca grati.
Pure Avane ed i suoi boschi
Noi vogliam che vi sian dati.

Brutto borgo è Buti: a valle
Tra le rocce grige e ignude
Il Riomagno brontolando
Va di Bientina al palude.

Ma su alto oh come belli
D'ubertà ridono i clivi,
Ma su alto oh come lieti
Ne l'april svarian gli ulivi!

Bacchian li uomini le rame,
Le fanciulle fan corona,
E di canti la collina
E di canti il pian risona,

Mentre pregni d'abondanza
Ispumeggiano i frantoi
Scricchiolando. Il ricco Buti
Noi cediam, pisani, a voi.

Ma d'Asciano in van pensate:
Quando a voi lo conquistammo,
Su le torri del castello
Quattro specchi ci murammo,

A ciò che le vostre donne,
Quando uscite a dameggiare,
Negli specchi dei lucchesi
Le si possan vagheggiare. –

E qui surse tra i lucchesi
Uno sconcio suon di risa.
A i pugnali sotto i panni
Miser mano quei di Pisa.

Ma Banduccio di Buonconte
Con un cenno di comando
Frenò l'ire, e, su i lucchesi
Fieramente riguardando,

– Otto giorni – disse, e tese
Contro Lucca avea le mani, –
E vedrete quali specchi
Han le donne de i pisani. –

Sette giorni: e a Pisa, in ponte,
Tra gli albor crepuscolari,
Era accesa una candela
Di sol dodici denari.

Stava presso la candela,
Tremolante nel bagliore,
Co' pennoni del comune
A cavallo un banditore.

E sonava a più riprese
De la tromba, e urlava forte:
– Viva il popolo di Pisa
A la vita ed a la morte!

Cittadini di palagio,
Mercatanti e buoni artieri;
E voi conti di Maremma
Da i selvatici manieri;

Voi di Corsica visconti,
Voi marchesi de' confini;
Voi che re siete in Sardegna
Ed in Pisa cittadini;

Voi che in volta dal levante
Mainaste or or la vela:
Pria che arrossi la Verruca
E si spenga la candela,

Fuori porta del Parlascio,
Su, correte arditamente!
Su, su, popolo di Pisa,
Cavalieri e buona gente!

Fuori porta del Parlascio,
Con gran cuore, a lancia e spada!
Uguccion de la Faggiola
Messo ha in punto la masnada.

Tutto ferro l'ampio busto,
Ed il grande capo ignudo,
Sta su 'l grande caval bianco
E imbracciato ha il grande scudo,

Che ben quattro partigiane
Regge, e, come fosser ceci,
De' lucchesi i verrettoni
Regge infitti a dieci a dieci. –

Così grida il banditore,
E la gente accorre armata.
Va co 'l sole di novembre,
Va la fiera cavalcata.

Va per grige irsute stoppie
Da la brina inargentate,
Va per languidi oliveti,.
Va per vigne dispogliate.

Forte odora per le ville
La vendemmia già matura:
Ahi, quest'anno san Martino
Dà la mala svinatura!

O lucchesi, il vostro santo
Non è più, mi par, con voi.
Il pisan cacciasi avanti
Contadini e carri e buoi,

E battendo ed uccidendo
Corre il misero paese;
Fugge innanzi a quella furia,
Fugge il popolo lucchese.

Così giunge a San Friano
La feroce cavalcata.
Lucca dietro le sue torri
Téme l'ultima giornata.

I pisani oltre le mura
Gittan faci e verrettoni.
– Togli su, pantera druda,
Togli su questi bocconi.

Tali specchi, o Lucca bella,
Pisa manda a le tue donne. –
E rizzaron su la porta
Due lunghissime colonne;

E due specchi in vetta in vetta,
Grandi e grossi come bótti,
V'appiccarono: ed intorno
Menan balli e dicon motti.

Ma Tigrin de la Sassetta,
Faccia ed anima cattiva,
Trasse a corsa pe' capelli
Un lucchese che fuggiva,

E la spada per le reni
Una volta e due gli fisse;
Tinse il dito entro quel sangue,
Su la porta così scrisse:

– Manda a te, Bonturo Dati,
Che i lucchesi hai consigliati,
Da la porta a San Friano
Questo saluto il popolo pisano. –


Marzo 1875.


LXXX

NINNA NANNA DI CARLO V

In Brusselle, a l'ostel, sola soletta,
Di tre giovini sposi vedovetta,
Sta Margherita d'Austria; e s'affretta
Una camicia bianca ad agucchiare.

A lei da canto il nipotino in culla
Con un magro levriero si trastulla:
Ha le mascelle a guisa di maciulla,
Cascante il labbro sotto; e infermo pare.

Di maligna caligine velate
Intorno a lui si volgono tre fate,
E del mal di tre secoli beate
Tessono intorno a lui questo cantare.

– Salve, o fanciul da la faccia cagnazza:
Salve, o figliuol di Giovanna la pazza:
Salve, o pollone de la mista razza
Che dee la terra cristiana aduggiare.

La discordia de i sangui per tre rivi
E il bulicame de i pensier cattivi
E l'accidia de gl'impeti mal vivi
Sale nel tuo cervello a fermentare. –

Poi l'una: – Io son la furia di Borgogna
Che nulla attinge e tutto il mondo agogna.
Io trassi il Temerario con vergogna
Nel toro d'Uri indomito a cozzare.

E boccon giacque, corpo dispogliato,
Tra i ghiacciuoli d'un lago innominato.
Questo l'augurio il simbolo ed il fato
Che lo tuo regno segua in terra e in mare. –

– La vertigine io son – quell'altra dice –
Che tragge Max di pendice in pendice
Per l'alpe del Tirolo: e l'infelice,
Seguendo me, dismenta l'accattare.

Hallalì, hallalì, gente d'Habsburgo!
Ad una caccia eterna io con te surgo;
Poi nel sangue de i popoli mi purgo,
E nel tuo, dal travaglio del cacciare. –

– Ed io son la pazzia – la terza fata
Dice –, e son de la morte innamorata:
La bara per il talamo ho scambiata,
E sol nel cataletto io posso amare.

Non odi tu Giovanna che si lagna?
T'aspetto a Yust. Vuo', sotto il ciel di Spagna,
Perché la razza tua meco rimanga,
Il mostruoso Escurial murare. –

Poi tutt'e tre – Nel cuor tuo brabanzone
Il mezzogiorno ed il settentrione
Saran con torbid'impeti a tenzone.
Per poi in calma livida fiaccare.

O primo ereditario imperatore,
O primo d'Europa accentratore,
Su 'l vecchio tempo che libero muore
Vien' la rete dinastica a gettare.

Su 'l nuovo tempo che libero nasce,
A cui Lutero dislaccia le fasce
E di midolla di pensier lo pasce,
Vien' la rete ecclesiastica a gettare.

E tu, Margotta, cucitrice ardita,
Che in fretta meni su e giù le dita,
La camicia di Nesso è ancor finita?
Presto! vogliam l'Europa imbavagliare.


Piano d'Arta, agosto 1885 [ 1887 ].


LXXXI

A VITTORE HUGO
(XXVII FEBBRAIO MDCCCLXXXI)

Da i monti sorridenti nel sole mattutino
Scende l'epos d'Omero, che va fiume divino
Popolato di cigni pe 'l verde asiaco pian.
Sorge aspra la tragedia d'Eschilo nel fatale
Orror, fuma e lampeggia, e freme e tuona, quale
Sovra il mar di Sicilia per la notte un vulcan.

L'ode olimpia di Pindaro, aquila trionfale,
Distende altera e placida il remeggio de l'ale
Nel fulgente meriggio su i fòri e le città.
Era quei libri di canti, nel mio studio, o Vittore,
La tua canuta effige, piegata nel dolore
La profetica testa su la man destra, sta.

Pensi i figli o la patria? pensi il dolore umano?
Non so; ma quando, o vate, raccolgo in quell'arcano
Dolore gli occhi e il cuor,
Scordo i miei danni antichi, scordo il recente danno.
E rammemoro gli anni che fûro e che saranno
E ciò che mai non muor.

Colsi per l'Appia via sur un tumulo ignoto
E posi a la tua fronte, segnacol del mio vóto,
Un ramuscel d'allòr.
Poeta, a te il trionfo su la forza e su 'l fato!
Poeta, co 'l lucente piede tu hai calcato
Impero e imperator!

Chi novera a te gli anni? che cosa è a te la vita?
Tu di Gallia e di Francia sei l'anima infinita,
Che al tuo gran cuor s'accolse per i secoli a vol.
In te l'urlo de' nembi su la britanna duna,
E i sogni de' normanni piani al lume di luna.
E l'ardor del granito di Pirene erto al sol.

In te la vendemmiante sanità borgognona,
Il genio di Provenza che armonie greche suona,
L'estro che Marna e Senna gallico limitò.
Tu vedevi i tettòsagi carri al grand'Ilio intorno,
Udivi in Roncisvalle del franco Orlando il corno,
Ragionavi a Goffredo a Baiardo a Marceau.

Come quercia druidica sta il tuo fatal lavoro.
Biancovestite muse taglian con falce d'oro
Del sacro visco il fior.
Da' soleggiati rami pendon l'armi de gli avi,
Pendon l'arpe de' bardi; ma l'usignol ne' cavi
Scudi canta d'amor.

Danzan le figlie a l'ombra, del maggio tra i susurri,
E i fanciulletti guardan con i grandi occhi azzurri,
Sparsi i capelli d'òr;
Però ch'ardua la vetta si perde ne la sera,
E vi passa per entro co' lampi e la bufera
Il dio vendicator.

Poeta, su 'l tuo capo sospeso ho il tricolore
Che da le spiaggie d'Istria da l'acqua di Salvore
La fedele di Roma, Trieste, mi mandò.
Poeta, la Vittoria di Brescia a te d'avante
Ne la parete dice – Qual nome e qual fiammante
Anno nel sempiterno clipeo descriverò? –

Passan le glorie come fiamme di cimiteri,
Come scenari vecchi crollan regni ed imperi:
Sereno e fiero arcangelo move il tuo verso e va.
Canta a la nuova prole, o vegliardo divino,
Il carme secolare del popolo latino;
Canta al mondo aspettante, Giustizia e Libertà.


27 febbraio 1881.



LIBRO SETTIMO


ÇA IRA


LXXXII

Lieto su i colli di Borgogna splende
E in val di Marna a le vendemmie il sole:
Il riposato suol piccardo attende
L'aratro che l'inviti a nuova prole

Ma il falcetto su l'uve iroso scende
Come una scure e par che sangue cóle:
Nel rosso vespro l'arator protende
L'occhio vago a le terre inculte e sole,

Ed il pungolo vibra in su i mugghianti
Quasi che l'asta palleggiasse, e afferra
La stiva urlando: Avanti, Francia, avanti!

Stride l'aratro in solchi aspri: la terra
Fuma: l'aria oscurata è di montanti
Fantasimi che cercano la guerra.


11-13 marzo 1883.


LXXXIII

Son de la terra faticosa i figli
Che armati salgon le ideali cime,
Gli azzurri cavalier bianchi e vermigli
Che dal suolo plebeo la Patria esprime.

E tu, Kleber, da gli arruffati cigli,
Leon ruggente ne le linee prime;
E tu via sfolgorante in tra i perigli,
Lampo di giovinezza, Hoche sublime.

Desaix che elegge a sé il dovere e dona
Altrui la gloria, e l'onda procellosa
Di Murat che s'abbatte a una corona;

E Marceau che a la morte radiosa
Puro i suoi ventisette anni abbandona
Come a le braccia d'arridente sposa.


15 marzo 1883.


LXXXIV

Da le ree Tuglierì di Caterina
Ove Luigi inginocchiossi a i preti,
E a' cavalier bretanni la regina
Partìa sorrisi lacrime e segreti,

Tra l'afosa caligin vespertina
Sorge con atti né tristi né lieti
Una forma, ed il fuso attorce e china,
E con la rócca attinge alta i pianeti.

E fila e fila e fila. Tutte sere
Al lume de la luna e de le stelle
La vecchia fila, e non si stanca mai.

Brunswick appressa, e in fronte a le sue schiere
La forca; e ad impiccar questa ribelle
Genia di Francia ci vuol corda assai!


13 marzo 1883.


LXXXV

L'un dopo l'altro i messi di sventura
Piovon come dal ciel. Longwy cadea.
E i fuggitivi da la resa oscura
S'affollan polverosi a l'Assemblea.

– Eravamo dispersi in su le mura:
A pena ogni due pezzi un uom s'avea:
Lavergne disparì ne la paura:
L'armi fallìan. Che più far si potea? –

– Morir – risponde l'Assemblea seduta.
Goccian per que' riarsi volti strane
Lacrime: e parton con la fronte bassa.

Grande in ciel l'ora del periglio passa,
Batte con l'ala a stormo le campane:
O popolo di Francia, aiuta, aiuta!


10 aprile 1883.


LXXXVI

Udite, udite, o cittadini. Ieri
Verdun a l'inimico aprì le porte:
Le ignobili sue donne a i re stranieri
Dan fiori e fanno ad Artois la corte,

E propinando i vin bianchi e leggeri
Ballano con gli ulani e con le scorte.
Verdun, vile città di confettieri,
Dopo l'onta su te caschi la morte!

Ma Beaurepaire il vivere rifiuta
Oltre l'onore, e gitta ultima sfida
L'anima a i fati a l'avvenire e a noi.

La raccolgon dal ciel gli antichi eroi,
E la non nata ancor gente ci grida:
- O popolo di Francia, aiuta, aiuta.


14 aprile 1883.


LXXXVII

Su l'ostel di città stendardo nero
– Indietro! – dice al sole ed a l'amore:
Romba il cannone, nel silenzio fiero,
Di minuto in minuto ammonitore.

Gruppo d'antiche statue severo
Sotto i nunzi incalzantisi con l'ore
Sembra il popolo: in tutti uno il pensiero
– Perché viva la patria, oggi si muore. –

In conspetto a Danton, pallido, enorme,
Furie di donne sfilano, cacciando
Gli scalzi figli sol di rabbia armati.

Marat vede ne l'aria oscure torme
D'uomini con pugnali erti passando,
E piove sangue donde son passati.


27 febbraio 1883.


LXXXIX

Una bieca druidica visione
Su gli spiriti cala e gli tormenta:
Da le torri papali d'Avignone
Turbine di furor torbido venta.

O passion degli Albigesi, o lenta
De gli Ugonotti nobil passione,
Il vostro sangue bulica e fermenta
E i cuori inebria di perdizione.

Ecco la pena e il tribunale orrendo
Che d'ombra immane il secol novo impronta!
Oh, sei la Francia tu, bianca ragazza

Che su 'l tremulo padre alta sorgendo
A espiare e salvar bevi con pronta
Mano il sangue de' tuoi da piena tazza?


Roma, 25 aprile 1883.


LXXXIX

Gemono i rivi e mormorano i venti
Freschi a la savoiarda alpe natia.
Qui suon di ferro, e di furore accenti:
Signora di Lamballe, a l'Abbadia.

E giacque, tra i capelli aurei fluenti,
Ignudo corpo in mezzo de la via;
E un parrucchier le membra anco tepenti
Con sanguinose mani allarga e spia.

– Come tenera e bianca, e come fina!
Un giglio il collo e tra mughetti pare
Garofano la bocca piccolina.

Su, co' begli occhi del color del mare,
Su, ricciutella, al Tempio! A la regina
Il buon dì de la morte andiamo a dare. –


11 febbraio 1883.


XC

Oh non mai re di Francia al suo levare
Tale di salutanti ebbe un drappello!
La fósca torre in quel tumulto pare
Sperso nel mezzodì notturno uccello.

Ivi su 'l medio evo il secolare
Braccio discese di Filippo il Bello,
Ivi scende de l'ultimo Templare
Su l'ultimo Capeto oggi l'appello.

Ecco, mugge l'orribile corteo:
La fiera testa in su la picca ondeggia,
E batte a le finestre. Ed il re prono

Da le finestre de la trista reggia
Guarda il popolo, e a Dio chiede perdono
De la notte di San Bartolommeo


27 marzo 1883.


XCI

Al calpestìo de' barbari cavalli
Ne l'avel si svegliò dunque Baiardo?
E su le dolci orleanesi valli
La Pulcella rileva il suo stendardo?

Da l'Alta Sona e dal ventoso Gardo
Chi vien cantando a i mal costrutti valli
Sbarrati di tronchi alberi? È il gagliardo
Vercingetòrix co' suoi rossi Galli?

No: Dumouriez, la spia, nel cor riscuote
Il genio di Condé: sopra la carta
Militare uno sguardo acceso lancia,

Ed una fila di colline ignote
Additando – Ecco – dice –, o nuova Sparta,
Le felici Termopile di Francia. –


Roma, 27 aprile 1883.


XCII

Su i colli de le Argonne alza il mattino
Brumoso, accidioso e lutolento.
Il tricolor bagnato in su 'l mulino
Di Valmy chiede in vano il sole, e il vento.

Sta', sta', bianco mugnaio. Oggi il destino
Per l'avvenire macina l'evento,
E l'esercito scalzò cittadino
Dà co 'l sangue a la ruota il movimento.

– Viva la patria – Kellermann, levata
La spada in tra i cannoni, urla, serrate
De' sanculotti l'epiche colonne.

La marsigliese tra la cannonata
Sorvola, arcangel de la nova etate,
Le profonde foreste de le Argonne.


30 marzo 1883.


XCIII

Marciate, o de la patria incliti figli,
De i cannoni e de' canti a l'armonia:
Il giorno de la gloria oggi i vermigli
Vanni a la danza del valore apria.

Ingombra di paura e di scompigli
Al re di Prussia è del tornar la via:
Ricaccia gli emigrati a i vili esigli
La fame il freddo e la dissenteria.

Livido su quel gran lago di fango
Guizza il tramonto, i colli d'un modesto
Riso di sole attingono la gloria.

E da un gruppo d'oscuri esce Volfango
Goethe dicendo: Al mondo oggi da questo
Luogo incomincia la novella storia.


31 marzo 1883.



LIBRO OTTAVO


XCIV

LA FIGLIA DEL RE DEGLI ELFI
Da Stimmen der Völker di GOTTFR. V. HERDER

Cavalca sir Óluf la notte lontano
Per fare gl'inviti, ch'è sposo diman.
Or danzano gli elfi su 'l bel verde piano:
La donna de gli elfi gli stende la man.

– Ben venga sir Óluf! Perché vuoi scappare?
Vien dentro nel cerchio: vien, balla con me. –
– Ballare non devo, non posso ballare:
È giorno di nozze dimani per me. –

– Se meco tu balli, scudiero gentile,
Due d'oro speroni donare io ti vo',
Ed una camicia di seta, sottile,
Che al lume di luna mia madre imbiancò. –

– Ballare non posso, non devo ballare:
È giorno di nozze dimani per me. –
– Sir Óluf, ascolta: ti voglio donare
Un cumulo d'oro, se balli con me. –

– Il cumulo d'oro ben venga; ma poi
Ballare non posso, ché ho nozze diman. –
– Se meco, sir Óluf, ballare non vuoi,
Il morbo e il contagio ti accompagneran. –

E un colpo gli batte leggero su 'l cuore:
Tal doglia sir Óluf più mai non sentì.
Poi bianco il rialza su 'l suo corridore:
– Ritorna a la sposa, ritorna così. –

E quando a la porta di casa egli venne,
Sua madre al vegnente guardò con terror:
– Ascolta, figliuolo: di' su, che t'avvenne?
Perché così smorto? che è quel pallor? –

– Come esser non debbo sì pallido e smorto?
Nel regno de gli elfi m'avvenne d'entrar. –
– Figliuolo, la sposa sarà qui di corto:
Che devo a la sposa, figliuolo, contar? –

– Le di' che a sollazzo cammino pe 'l bosco
Con cane e cavallo, provandolo al fren. –
Ed ecco (il mattino tremava ancor fósco)
La sposa e l'allegro corteggio ne vien.

Recavano cibi, recavano vino,
– Ov'è il mio sir Óluf? lo sposo dov'è? –
– Usciva a sollazzo pe 'l bosco vicino
Con cane e cavallo, verrà presto a te. –

La sposa una rossa cortina solleva,
E morto lì dietro sir Óluf giaceva.


24-25 dicembre 1879.


XCV

IL RE DI TULE
Dalle Ballate di W. GOETHE

Fedel sino a l'avello
Egli era in Tule un re:
Morì l'amor suo bello,
E un nappo d'òr gli diè.

Nulla ebbe caro ei tanto,
E sempre quel vuotò:
Ma gli sgorgava il pianto
Ognor ch'ei vi trincò.

Venuto a l'ultim'ore
Contò le sue città:
Diè tutto al successore,
Ma il nappo d'òr non già.

Ne l'aula de gli alteri
Suoi padri a banchettar
Sedé tra i cavalieri
Nel suo castello al mar.

Bevé de la gioconda
Vita l'estremo ardor,
E gittò il nappo a l'onda
Il vecchio bevitor.

Piombar lo vide, lento
Empiersi e sparir giù;
E giù gli cadde spento
L'occhio e non bevve più.


[ 27 marzo 1869 ].


XCVI

I TRE CANTI
Dalle Ballate di L. UHLAND

Re Sifrido tien corte. – Arpeggiatori,
Il più bel canto qual di voi mi sa? –
E un giovinetto esce di schiera fuori
Snello: in man l'arpa, spada al fianco egli ha.

– Tre canti, o re, so io. Del primo è spento
Da tempo ogni ricordo entro il tuo cor:
Tu m'hai morto il fratello a tradimento;
Tu m'hai morto il fratello, o traditor.

L'altro canto una notte, e urlava forte
Il turbine, una notte ebbi a pensar:
Tu hai da pugnar meco a vita e morte,
A vita e morte hai meco da pugnar. –

E appoggia l'arpa al tavolo; e già fuore
Tratte han le spade arpeggiatore e re:
Pugnano a lungo con fiero fragore
Fin che cade ne l'alta sala il re.

– Or canto il terzo, il canto mio più vago,
Né mai stanco a ridirlo mi farà:
Giace Sifrido re nel rosso lago
Del sangue suo, morto nel sangue sta.


21 giugno 1874.


XCVII

LA TOMBA NEL BUSENTO
Dalle Ballate di A. V. PLATEN

Cupi a notte canti suonano
Da Cosenza su 'l Busento,
Cupo il fiume gli rimormora
Dal suo gorgo sonnolento.

Su e giù pe 'l fiume passano
E ripassano ombre lente:
Alarico i Goti piangono,
Il gran morto di lor gente.

Ahi sì presto e da la patria
Così lungi avrà il riposo,
Mentre ancor bionda per gli ómeri
Va la chioma al poderoso!

Del Busento ecco si schierano
Su le sponde i Goti a pruova,
E dal corso usato il piegano
Dischiudendo una via nuova.

Dove l'onde pria muggivano
Cavan, cavano la terra;
E profondo il corpo calano,
A cavallo, armato in guerra.

Lui di terra anche ricoprono
E gli arnesi d'òr lucenti:
De l'eroe crescan su l'umida
Fossa l'erbe de i torrenti!

Poi, ridotto a i noti tramiti,
Il Busento lasciò l'onde
Per l'antico letto valide
Spumeggiar tra le due sponde.

Cantò allora un coro d'uomini:
– Dormi, o re, ne la tua gloria!
Man romana mai non vìoli
La tua tomba e la memoria! –

Cantò, e lungo il canto udivasi
Per le schiere gote errare:
Recal tu, Busento rapido,
Recal tu da mare a mare.


5-6 luglio 1872.


XCVIII

IL PASSO DI RONCISVALLE
DALLO SPAGNUOLO E DAL PORTOGHESE

– Fermi, fermi, cavalieri,
Ché il re mandavi a contar. –
E contarono e contarono,
Uno sol venne a mancar:
Era questi don Beltrano
Sì gagliardo a battagliar.
Là ne' campi d'Alventosa
Tutti a dosso a lui serrâr:
Sol de' monti al tristo passo
Lo poterono ammazzar.

Tiran sette volte a sorte
Chi dovesse irlo a cercar.
Su 'l buon vecchio di suo padre
Tutt'e sette ricascâr:
Le tre fu la rea fortuna,
Quattro fu malvagità.
Volge la briglia al cavallo,
A l'amara cerca va:
Va la notte per la strada,
Per la selva il giorno va.

Vanne il vecchio e seco piange,
Cheto piange ne l'andar,
A i pastori dimandando
Se han veduto indi passar
Cavaliere d'armi bianche
Sur un sauro a cavalcar.
– Cavaliere d'armi bianche
Sur un sauro a cavalcar
Non vedemmo in queste parti,
Non vedemmo alcun passar. –

E cavalca via e cavalca
Fin che giunge a Roncisval.
Fra la strage va il vegliardo,
Fra la strage lento va.
Tanto volta e volta i morti
Che le braccia stracche n'ha:
Non ritrova quel che cerca,
E né meno il suo segnal:
I francesi vide tutti,
Ma non vide don Beltran.

Malediva, andando, il vino;
Malediva, andando, il pan,
Quel che mangia il saracino
E non quello del cristian.
Malediva arbor che nasce
Solo a i campi senza ugual,
Ché del ciel tutti gli uccelli
Vi si vengono a posar,
Né di rami né di foglie
Non lo lascian rallegrar.

Maledia cavalier ch'usi
Senza paggio cavalcar:
Se gli cade in via la lancia,
Non ha uno a raccattar;
Se gli cade in via lo sprone,
Non ha uno a ricalzar.
Malediva anche la donna
Che un sol figlio seppe far:
Se l'uccidono i nemici,
Non ha uno a vendicar.

A l'uscir del pian sabbioso,
D'una gola in su l'entrar,
Vide un moro a una bertesca
Solo e ritto a vigilar.
Gli parlò l'araba lingua,
Come quei che ben la sa:
– Moro, prègoti per Dio:
Moro, dimmi in verità:
Cavaliere d'armi bianche
Vedestù passar di qua?

Lo vedesti a notte bruna
O del gallo su 'l cantar?
Ché se tu lo tieni preso,
Peso d'oro te 'n vo' dar:
Ché se tu lo tieni morto,
Rendimel per sotterrar;
Poi che corpo senza l'alma
Un denaro più non val. –
– Dimmi, amico, il cavaliere
Dimmi tu, che segni ha? –

– Le sue armi sono bianche,
Ed è sauro il suo caval.
Ne la guancia destra ha un segno
Che un sparvier lasciato gli ha:
Lo beccò ch'era bambino,
E ne porta anche il segnal.
Su la punta de la lancia
Leva un candido zendal;
Ricamòglielo la dama
Tutto di punto real. –

– Questo cavaliere, amico,
In quel prato morto sta:
Ha le gambe dentro l'acqua,
Ne la rena il corpo egli ha.
Sette punte egli ha nel petto,
Non si sa qual più mortal;
Ché per l'una gli entra il sole,
La luna per l'altra va,
Ne la più piccola stavvi
L'avvoltoio a divorar. –

– Non do colpa al mio figliuolo,
Né vo' a' Mori colpa dar;
Do la colpa al suo cavallo,
Che no 'l seppe ritornar. –
O miracol! chi 'l direbbe,
Chi 'l potrebbe raccontar?
Il cavallo mezzo morto
Così prese a favellar:
– Non mi dare a me la colpa.
Che no 'l seppi ritornar.

Ben tre volte trassi a dietro
Per poterlo in salvo trar:
Tre mi diè di sprone e briglia
Pe 'l desio di battagliar,
E tre apersemi le cigne,
Allargommi il pettoral:
A la terza caddi a terra
Con questa piaga mortal. –


10 aprile 1881.


XCIX

GHERARDO E GAIETTA
Dalle Romanze in francese antico pubbl. da K. BARTSCH

Sabato sera in fin di settimana
Gaietta e Orior sua sorella germana
Van per mano a bagnarsi a la fontana.
Soffi il vento, crolli la rama:
Dolce dorme chi ben s'ama.

Scudier Gherardo vien da la quintana,
Scorta ha Gaietta sopra la fontana,
Tra le braccia la tien soave e piana.
Soffi il vento, crolli la rama:
Dolce dorme chi ben s'ama.

– Quando tu avrai tratto de l'acqua, Oriore
Tórnati a dietro: io sto co 'l mio signore,
Che ben m'ha presa, e co 'l suo dritto amore. –
Soffi il vento, crolli la rama:
Dolce dorme chi ben s'ama.

Ora se 'n va bianca e smarrita Oriore,
Piange de gli occhi, sospira del core,
Ché non rimena Gaia e n'ha dolore.
Soffi il vento, crolli la rama:
Dolce dorme chi ben s'ama.

– Lassa – Orior dice – ed in mal'ora nata!
Mia sorella lasciai ne la vallata;
Gherardo al suo paese l'ha menata. –
Soffi il vento, crolli la rama:
Dolce dorme chi ben s'ama.

Scudier Gherardo e a lui Gaia abbracciata
La via per la città han seguitata:
Come vi venne, tosto l'ha sposata.
Soffi il vento, crolli la rama:
Dolce dorme chi ben s'ama.


Gennaio 1881.


C

LA LAVANDAIA DI SAN GIOVANNI
Dalle Romancero Castellano

Mi levai per San Giovanni,
Ch'era il sole per levar:

Vidi, o madre, una fanciulla
Sola sola in riva al mar.

Lava, attorce, e in un rosaio
Stende i panni a rasciugar.

Mentre i panni il sol rasciuga,
La fanciulla canta al mar:

– Dove, l'amor mio, dove,
Dove l'anderò a cercar? –

Su dal mare, giù dal mare.
Va dicendo il suo cantar:

Pettin d'oro ha ne le mani,
La sua chioma a pettinar.

– Dimmi tu, bel marinaio,
Così Dio ti voglia aitar,

Se l'hai visto l'amor mio,
Se l'hai visto là passar. –


24-29 dicembre 1879.


CI

IL PELLEGRINO DAVANTI A SAINT JUST
Dalle Ballate di A. V. PLATEN

È notte, e il nembo urla più sempre e il vento.
Frati spagnoli, apritemi il convento.

Lasciatemi posar sino a i divini
Misteri e al suon de' bronzi matutini.

Datemi allor quel che potete dare;
Date una bara ed uno scapolare,
Date una cella e la benedizione
A chi di mezzo mondo era padrone.

Questo capo a la chierca apparecchiato
Fu di molte corone incoronato,

Questo a le rozze lane ómero inchino
Levossi imperial ne l'ermellino.

Or morto in vista pria che in cimitero
Ruino anch'io come l'antico impero.


12 luglio 1871.


CII

CARLO I
Dal Romancero di H. HEINE

Cupo e solo, nel bosco, a la capanna
Del carbonaio, il re sedeva un dì:
A la culla sedea, la ninna nanna
Ei brontolava al pargolo così.

– Ninna nanna! Che cosa si rimescola
Ne la paglia? perché bela l'ovil?
Tu porti il segno in fronte, e ridi orribile
In mezzo al sonno, o bambolo gentil.

Il gatto è morto, ninna nanna! In fronte
Tu il segno porti: crescerai d'età,
E brandirai la scure, uomo fatto: al monte
Treman le querce e ne la selva già.

Sparì del carbonar l'antica fede:
Del carbonaro il figlio, ecco, su vien:
Nel buon Dio, ninna nanna, ei più non crede
E nel re, ninna nanna, ancora men.

Il gatto è morto, e i topi allegramente
Ballan d'intorno: il dì lungi non è
Che diverremo favola a la gente,
Dio nel ciel, ninna nanna, e in terra io re.

Ahi mi cade il coraggio, e fuor di spene
Io mi sento malato ogni dì più!
Ninna nanna, lo so, lo veggo bene:
Carbonaietto, il mio boia sei tu.

È ninna nanna a te l'oscuro e lento
Salmo di morte a me. Cresci a tagliar
Questi grigi cernecchi: al collo, ahi, sento
Il freddo de le forbici strisciar.

Ninna nanna! qualcosa ne la paglia
Si rimescola: il regno hai preso tu!
Or via dal vecchio tronco abbatti e scaglia
Questo mio capo: il gatto è morto: giù.

Ninna nanna! la paglia si rimescola,
Belan le capre ne lo stabbio pien,
Il gatto è morto e i topolini ballano.
Dormi, boietto mio, dormi per ben! –


[ Giugno 1871 ].


CIII

L'IMPERATORE DELLA CINA
Da Zeitgedichte di H. HEINE

Mio padre era un balordo astemio Cesare,
Un sornione in trono:
Io bevo la mia zozza, ed un magnanimo
Imperatore io sono.

Oh magica bevanda, indovinata
Dal mio paterno core!
Io bevo la mia zozza, e si dilata
La Cina tutta in fiore.

Il mio regno del centro apre e si spampana
Come un bocciuol di rosa.
Io quasi quasi un uom divento, e gravida
Si trova la mia sposa.

È una cuccagna! I moribondi in festa
Dànno calci a le bare:
Del mio Confucio imperial la testa
Annaspa idee più chiare.

A' miei prodi soldati il pan di segala
Diventa mandorlato,
E gli straccioni de l'impero marciano
Tutti in seta e in broccato.

Quegli invalidi frolli, quelle ignude
Zucche de' mandarini,
Ripigliano il vigor di gioventude
E scuotono i codini.

Compiuta è al fin la gran pagoda, mistico
Asil di fede e imago:
Già gli ultimi giudei vi si battezzano
E han l'ordine del drago:

Posa ogni senso di ribellione,
E gridano i Mansciù:
– Noi non vogliam la costituzione,
Noi vogliamo il kansciù,

Vogliam la verga! – Il medico di corte
Fa gli occhi spaventati.
Esculapio, io vo' ber fino a la morte
Per il ben de' miei stati.

E zozza ancora! e zozza ancora! un gócciolo
Ancor di questa manna!
Il mio popol, vedete, è in visibilio,
E canta – Osanna osanna!


Agosto 1872 [ 1871 ].


CIV

I TESSITORI
Da Zeitgedichte di H. HEINE

Non han ne gli sbarrati occhi una lacrima,
Ma digrignano i denti e a' telai stanno.
– Tessiam, Germania, il tuo lenzuolo funebre,
E tre maledizion l'ordito fanno.
Tessiam, tessiam, tessiamo!

Maledetto il buon Dio! Noi lo pregammo
Ne le misere fami, a i freddi inverni:
Lo pregammo, e sperammo, ed aspettammo:
Egli, il buon Dio, ci saziò di scherni.
Tessiam, tessiam, tessiamo!

E maledetto il re! de i gentiluomini,
De i ricchi il re, che viscere non ha:
Ei ci ha spremuto infin l'ultimo pìcciolo,
Or come cani mitragliar ci fa.
Tessiam, tessiam, tessiamo!

Maledetta la patria, ove alta solo
Cresce l'infamia e l'abominazione!
Ove ogni gentil fiore è pesto al suolo,
E i vermi ingrassa la corruzione!
Tessiam, tessiam, tessiamo!

Vola la spola ed il telaio scricchiola.
Noi tessiamo affannosi e notte e dì:
Tessiam, vecchia Germania, il lenzuol funebre
Tuo, che di tre maledizion s'ordì.
Tessiam, tessiam, tessiamo! –


27 giugno - 6 luglio 1872.



LIBRO NONO


CV

CONGEDO

Il poeta, o vulgo sciocco,
Un pitocco
Non è già, che a l'altrui mensa
Via con lazzi turpi e matti
Porta i piatti
Ed il pan ruba in dispensa.

E né meno è un perdigiorno
Che va intorno
Dando il capo ne' cantoni,
E co 'l naso sempre a l'aria
Gli occhi svaria
Dietro gli angeli e i rondoni.

E né meno è un giardiniero
Che il sentiero
De la vita co 'l letame
Utilizza, e cavolfiori
Pe' signori
E viole ha per le dame.

Il poeta è un grande artiere,
Che al mestiere
Fece i muscoli d'acciaio:
Capo ha fier, collo robusto,
Nudo il busto,
Duro il braccio, e l'occhio gaio.

Non a pena l'augel pia
E giulìa
Ride l'alba a la collina,
Ei co 'l mantice ridesta
Fiamma e festa
E lavor ne la fucina;

E la fiamma guizza e brilla
E sfavilla
E rosseggia balda audace,
E poi sibila e poi rugge
E poi fugge
Scoppiettando da la brace.

Che sia ciò, non lo so io;
Lo sa Dio
Che sorride al grande artiero.
Ne le fiamme così ardenti
Gli elementi
De l'amore e del pensiero

Egli gitta, e le memorie
E le glorie
De' suoi padri e di sua gente.
Il passato e l'avvenire
A fluire
Va nel masso incandescente.

Ei l'afferra, e poi del maglio
Co 'l travaglio
Ei lo doma su l'incude.
Picchia e canta. Il sole ascende,
E risplende
Su la fronte e l'opra rude.

Picchia. E per la libertade
Ecco spade,
Ecco scudi di fortezza:
Ecco serti di vittoria
Per la gloria,
E diademi a la bellezza.

Picchia. Ed ecco istoriati
A i penati
Tabernacoli ed al rito:
Ecco tripodi ed altari.
Ecco rari
Fregi e vasi pe 'l convito.

Per sé il pover manuale
Fa uno strale
D'oro, e il lancia contro 'l sole:
Guarda come in alto ascenda
E risplenda,
Guarda e gode, e più non vuole.


[ Agosto 1873 - 10 giugno 1887 ].



EDIZIONE DI RIFERIMENTO: "Giosue Carducci - Poesie", a cura di Raffaele Sirri, Casa Editrice Fulvio Rossi, Napoli, 1969







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